Il Centenario. Spunti di eroismo e di sacrifici – Puntata n° 1 di 4

Maggio radioso

Sono trascorsi più di cent’anni da quel gran tragico frastuono che decretava l’entrata in guerra dell’Italia. Una guerra che da subito mostrava le gravi contraddizioni che ne stavano alla base.

Da ben 33 anni eravamo alleati della Germania e dell’Austria, quest’ultima considerata da sempre il nostro storico nemico, a ragion veduta dopo che le avevamo sottratto terre ambite con le precedenti guerre di Indipendenza, 1859 e 1866. L’anno 1915 tuttavia, si presentò come foriero di una pesante alternativa: c’erano le terre irredente da liberare e l’Austria aveva risposto con un netto rifiuto alle proposte del Governo italiano, e c’erano le pressioni delle Potenze dell’Intesa che già da dieci mesi combattevano contro le forze degli Imperi Centrali. Gli scontri fra interventisti e neutralisti fecero infine pendere la bilancia delle decisioni per una denuncia, proclamata dall’Italia, della Triplice Alleanza e per lo schieramento tra le fila dell’Intesa, quindi guerra all’Austria.

Quando l’Esercito Italiano si portò nelle regioni del nordest per assestarsi di fronte alle frontiere austriache, ebbe immediatamente da affrontare un problema: gli si parò dinanzi una certa diffidenza, se non proprio ostilità, dimostrata da una parte, almeno, delle popolazioni locali. Lo slancio patriottico della parte irredentista della politica italiana parlava di una guerra di liberazione, ma molti, senza dubbio la maggioranza fra gli abitanti del nordest italiano, la considerarono una guerra di occupazione. La Giustizia militare affrontò questo palese dissidio con arresti e internamenti di cittadini delle zone di operazione, per semplice sospetto di collusione con il nemico, di attività anti italiana o sovversiva, di larvata ostilità. Si verificarono abusi a carico delle popolazioni locali. Già nell’autunno del 1914 la Carnia aveva pagato, nella situazione accennata, con il rimpatrio di 84.000 emigrati che furono costretti a perdere il lavoro, unica loro fonte di vita, mentre nei mesi da giugno ad agosto 1915 si assistette all’internamento di otre 70.000 residenti. I sospetti erano seguiti da una serie di denunce, tanto che nel 1916 il Tribunale di guerra di Tolmezzo giudicò 697 imputati per diserzione.

La guerra, che sarebbe dovuta essere rapida e rapidamente risolutiva, era preceduta da uno spettro che tracciava, sul cammino dei soldati e dei civili, sentieri di terribili e lunghe sofferenze. Il Combattente veniva retribuito con la paga di Lire 0,50 giornaliere se stava in trincea e in prima linea; se era nelle retrovie la sua paga si riduceva a dieci centesimi. A lui erano richiesti inflessibilmente obbedienza assoluta, pazienza, resistenza a ogni traversia, alle privazioni, all’angoscia. Era rifocillato con pasti per lo più freddi, somministrati in orari impossibili. Spesso mancava anche l’acqua, sia per l’alimentazione sia per l’igiene personale.

Spinti a sacrificarsi in attacchi che garantivano soltanto inutili massacri, i soldati erano presi molto spesso da dubbio, da sfiducia, da frustrazione, sino a cadere nella spersonalizzazione. La disciplina alla quale erano sottoposti era dettata dal Cadornismo che imponeva: resistere, sfondare o morire sul posto.

Persino la legittima consolazione di avere un rapporto epistolario con la famiglia venne a un certo punto offesa: nel febbraio 1918, in seguito alla grave disfatta del 24 ottobre, addebitata dai Comandi superiori alla diserzione e alla vigliaccheria di interi reparti, si contarono circa 120.000 cartoline e 50.000 lettere scritte e non spedite, gettate nei rifiuti. Nei mesi di aprile-maggio 1918 anche i pacchi, contenenti generi di conforto e di necessità, inviati dalle famiglie, cessarono di essere consegnati subito dopo la chiusura delle frontiere. A conflitto ultimato si trovarono alla frontiera e sparsi nei campi centinaia di migliaia di pacchi ancora chiusi.

L’Esercito Italiano mobilitò in questa guerra qualcosa come 4.200.000 soldati. Uno su dodici incorse in un procedimento penale e alla metà di questi fu comminata una condanna. Furono ben 750 le condanne a morte eseguite, del tutto o quasi ingiustamente.

Dalla parte della popolazione civile, deprivata di quasi tutti i beni di sussistenza, la fame ghermiva la povera gente a un livello di ferocia tale che molti morirono letteralmente di fame. La denutrizione causava malattie come la pellagra, la dissenteria sanguigna, la febbre malarica, la tubercolosi e nascite con malformazioni. Le persone più colpite furono vittime di vera disperazione da quando, nel 1918, la razione giornaliera di farina pro capite era stata ridotta da 200 a 80 grammi; furono costrette a integrare la loro dieta quotidiana con la farina derivata dalla raccolta dei frutti dei faggi, dalla molitura dei baccelli essiccati di fagioli e di fave, dei tutoli rimasti dalle pannocchie di granoturco, persino delle canne di granoturco lasciate nei campi, una dieta senza scampo a base di segatura! Non parliamo delle sevizie, dei soprusi, delle violenze subite dopo la disfatta di Caporetto.

Infine è da considerare anche il costo della guerra, su una prospettiva puramente economica. Tralasciando i danni dovuti alle distruzioni e alle requisizioni coatte, vediamo soltanto quanto costò mantenere in vita il conflitto per tutti i 41 mesi del confronto armato: occorreva fornire vitto, vestiario, medicinali e armamento per i Combattenti, occorreva mettere in campo armi automatiche, artiglierie, mezzi a motore e alimentare il tutto con enormi quantità di carburante, di metalli, di munizioni. Si calcolò approssimativamente che, per il totale delle Potenze belligeranti, amici e nemici, dal 1914 al 1918, fu affrontata una spesa pari a 650 miliardi di franchi-oro, cifra che ha il corrispondente nello stipendio annuo di un operaio di allora moltiplicato per 500 miliardi di volte. Un patrimonio mondiale interamente bruciato.
Questa, la Guerra!

1916. Asiago e dintorni

15 Maggio 1916. Asiago riporta con immediatezza alla mente la Strafexpedition sferrata dal generale austriaco Conrad sull’Altopiano dei Sette Comuni. Si sarebbero dovuti affrontare, nel giro di un mese e poco più, circa 450 mila Combattenti italiani in difesa contro 370/380 mila austriaci attaccanti su un’estensione compresa fra i fiumi Adige e Brenta.
Al comando del Gruppo di Armate austriaco era l’arciduca Eugenio, affiancato dal capo di Stato Maggiore, tenente maresciallo Alfred Krauss. L’11a Armata era comandata dal col. gen. Viktor Dankl; in subordine il capo di Stato Maggiore, ten. maresc. Cletus Pichler. A capo della 3a Armata stava il col. gen. Kövess Kövessaza con a capo dello Stato Maggiore il magg. gen. Konopichy.
Per l’Italia il Comando Supremo era capeggiato dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, gen. Luigi Cadorna (nella foto a lato: le date indicano il periodo di comando allo S.M.E.). La 1a Armata italiana era affidata al ten. gen. Guglielmo Pecori Giraldi; suo capo di Stato Maggiore, il magg. gen. Alberico Albricci. La 5a Armata era agli ordini del ten. gen. Pietro Frugoni e del capo di Stato Maggiore, magg. gen. Gaetano Giardino.
Il teatro della grande battaglia vide protagonisti alcuni personaggi di spicco: Conrad, come accennato; il suo collega tedesco Falkenhayn, in disparte, che non desiderava punto condividerne le sorti nella Campagna italiana; il gen. Cadorna, nella convinzione che i tedeschi non si sarebbero mossi, almeno per il momento, contro le nostre formazioni. Per parte sua, Conrad si sentiva un po’ messo dai tedeschi in disparte sulla scacchiera europea della guerra e credette opportuno cercare un successo personale battendosi contro l’Esercito italiano per schiacciarlo, anche perché lo considerava in posizione di sicuro svantaggio in fatto di armamenti e di preparazione. Ecco allora che Conrad scagliò, sul saliente del Trentino, le sue divisioni 3a e 44a.

Forti elementi di preoccupazione si potevano ravvisare nella zona di Arsiero tra i corsi d’acqua Astico e Pòsina e il non lontano Monte Cengio. Qui, sul Cengio, si distinsero i Granatieri di Sardegna costretti, solo in seguito a valorosa resistenza, a cedere nella giornata del 3 giugno 1916.

I nostri Combattenti erano sottoposti al Comando Truppe Altopiano affidato al gen. Clemente Lequio, già comandante della Zona Carnia l’anno precedente. Più di diecimila di quei valorosi si sacrificarono, fra morti, feriti e dispersi, nel periodo intercorrente tra il 25 maggio e il 3 giugno nella difesa del territorio presidiato. Più a ovest, sulla direttrice del Pasubio e del Coni Zugna in Vallarsa, premeva l’11a Armata austriaca con l’ambizione di abbatterne le resistenze per potersi poi gettare sulla pianura con primo obiettivo il centro di Schio.

Il vero e proprio divampare della battaglia degli Altipiani esordì il 15 maggio 1916 con l’infernale rombo, a partire dalle sei del mattino, delle artiglierie austroungariche. Le nostre forze svilupparono, in particolare, una difesa accanita in Val Terragnolo, est di Rovereto. La giornata del 15 maggio terminava, secondo fonti di informazioni austriache, con la nostra perdita di 500 ufficiali, oltre 23.000 soldati e quasi 200 pezzi d’artiglieria.

Un episodio veramente toccante viene citato dal gen. Karl Schneller (“1916. Mancò un soffio”, Mursia Ed. Milano 1984, 2014): durante l’avanzata gli Austriaci s’imbatterono in un nostro Caduto che, dagli indizi rilevati, si era battuto con eccezionale eroismo, fermo al proprio posto; stavano a testimoniarlo una distesa di bossoli sparsi attorno e 52 caricatori vuoti. Tale dimostrazione di fedeltà convinse la pattuglia nemica a sostare alquanto e a rendere gli onori a quel prode.

Il Cengio doveva cadere in mano austriaca il 3 giugno 1916. Il giorno 8 fu la volta di Monte Fior a presidio del quale era rimasto un battaglione con appena un centinaio di uomini, costretto peraltro a ripiegare. Gli austriaci, baldanzosi, videro però eluse le proprie ambizioni di spingersi oltre, perché incontrarono un insormontabile ostacolo nella caparbietà combattiva del II battaglione appartenente al 151° reggimento Fanteria. La stessa sensazione di aver raggiunto un limite alle proprie aspirazioni di conquista dovette verosimilmente impadronirsi dei Comandi austriaci dopo la presa di Castelgomberto.

Poco a sud di Arsiero svettano due elevazioni che hanno ricoperto ruoli tutt’altro che trascurabili nella difesa dell’Altopiano; sono il Monte Priaforà e il Monte Giove. Su quest’ultimo, siamo nelle ore antimeridiane del 13 giugno, si scatenò un attacco delle artiglierie austriache con inaudita violenza, esteso sino alla conca di Novegno, poco più a sudovest. I nostri soldati si dovettero battere contro i Kaiserjäger con ogni mezzo, ricorrendo finanche al lancio di sassi e a scontri corpo a corpo sul filo della baionetta. Si protrasse a lungo la resistenza dei nostri, opposta agli avversari con coraggio e con valore veramente eccezionali, tanto da potersi affermare senza esitazione essere stato, il fatto d’armi menzionato, uno dei motivi che in primis determinarono il fallimento della Spedizione Punitiva del gen. Conrad.

Il 14 giugno, nonostante la potente irruzione sferrata dall’11a Armata austriaca sui nostri capisaldi dello Zugna, della Vallarsa, del Pasubio, dello Xomo e del Monte Giove, nulla di seriamente concreto ne era risultato. Tant’è che il comandante gen. Dankl fu costretto a dimettersi.

Tre giorni appresso ecco pervenire dal Comando Supremo austriaco l’ordine di sospendere le azioni offensive. Sia la 3a sia l’11a Armata si ritiravano per occupare una linea difensiva arretrata. Il pericolo di un’invasione austriaca della pianura veneta appariva finalmente scongiurato.

Era il 19 giugno 1916 allorché alla 3a Armata austriaca si frapponevano serie difficoltà nel realizzare l’arretramento delle artiglierie, cosa che mise in attesa anche i movimenti dell’11a Amata.

Era scoccata l’ora in cui il col. Kundmann dello Stato Maggiore del Comando Supremo imperiale emise il triste – per gli Austroungarici – verdetto: “Con questo si può fare una croce sulla guerra contro l’Italia”.

Respinti dal valore dei nostri Combattenti e beffati da una sorte maligna gli Austriaci diedero definitivo inizio all’arretramento delle proprie formazioni il giorno 25 giugno, proprio nella ricorrenza del 50° anniversario della loro vittoria sull’Esercito italiano a Custoza.

Dal 15 maggio alla metà di giugno del 1916 gli Austriaci subirono ingenti perdite: 5.000 morti, 23.000 feriti, 14.000 ammalati e 2.000 prigionieri.

Un verace e funesto quadro di quali e quanti furono i sacrifici e le sofferenze imposti dalla guerra ai nostri soldati e, senza voler minimizzare, agli avversari di allora, si trova nella descrizione operata da Tullio Vidulich (“Storia degli Alpini”, Ed. Panorama, Trento 2002). Vi si legge di scontri atroci, costati molto sangue, nella fattispecie in località Passo Buole – Monte Loner in Vallarsa, ovest del Pasubio, allorché in pieno svolgimento della Spedizione Punitiva due battaglioni del 62° Fanteria ingaggiarono un aspro combattimento che valse a respingere le forze d’invasione, con la perdita, purtroppo, di 49 ufficiali e 1.038 uomini di truppa. Ma non è da sottacere neppure l’inferno attraversato dai soldati austriaci, i così denominati Landesschützen, che lamentarono la perdita di 15 ufficiali e 614 soldati. Ognuno di questi eroi, tali erano considerati dalla sponda a cui appartenevano, lottava per una causa in cui credeva, per una fede che abbracciava, con la perenne nostalgia per la vita pacifica che aveva lasciato, mentre una logica spietata di guerra ne aveva fatto semplice oggetto di carneficina. Lo stanno a indicare le 150.000 perdite fra i Combattenti italiani e le 82.000 per i nostri avversari sui campi di battaglia nel periodo intercorso dal 15 maggio al 31 luglio 1916.

Il Fronte dimenticato

È così che Hans Lukas (“Carnia 1915/1917. Il fronte dimenticato”, Itinera Progetti, Bassano del Grappa) definisce la linea di conflitto stesa lungo la dorsale delle Alpi che separano la Carnia dall’Austria.

La scacchiera dei confronti armati in questione era anche conosciuta come Zona Carnia, l’arco montano che aveva inizio dal Monte Peralba (m 2.694) e si gettava verso est toccando le elevazioni del Monte Coglians, del Passo di Monte Croce Carnico, del Pizzo Avostanis, del Monte Lodin e, giù giù per la Val Pontebbana, il centro di Pontebba sino al Monte Rombon. Nel 1915 la Zona cadeva sotto la responsabilità del gen. Clemente Lequio.

Su questo fronte divamparono episodi di lotta di particolare recrudescenza, che richiesero ai nostri Combattenti enormi sacrifici; eppure non se ne fa gran menzione, forse perché le ridotte zone d’influenza su scala geografica non sollecitarono l’attenzione di gran parte degli analisti, più attratti da eventi di conclamato significato patriottico e dalle dimensioni dei fatti svoltisi.

La guerra era appena iniziata, siamo a giugno 1915 sul Monte Peralba. Un violento attacco di forze austriache aveva costretto i Bersaglieri dell’8° reggimento a ripiegare dal Passo Bladner sulla spalla orientale del Peralba, non lontano dalle sorgenti del Degano e del Piave.

Un paio di mesi più tardi si trovava in zona il batt. Dronero del 2° Alpini. Al suo comandante, magg. Piva, pervenne l’ordine di riconquistare il Passo. Il maggiore diede disposizioni perché l’azione potesse sortire un effetto sicuro. Il compito fu affidato a un plotone di Alpini dei battaglioni Dronero e Cadore, alla cui testa fu designato il maresciallo Berardengo della 19a compagnia Alpina (Dronero). Fu un’impresa non pienamente rispondente alle aspettative poiché la superiorità in uomini e armamento degli Austriaci ebbe ragione del coraggio dimostrato dagli Alpini.

Verso la sera del 7 agosto la 19a compagnia venne richiamata sulle posizioni di partenza lasciando sulle asperità del monte quattordici morti e cinque dispersi; tornò alla base con altri 35 Alpini feriti. Lo stesso maresciallo Berardengo cadde colpito a morte: lo ritrovarono alcuni mesi dopo gli Austriaci sul fondo di un precipizio.

Più a oriente, poco prima del Passo di Monte Croce Carnico, svettano le due cime del Monte Cellon, contese con caparbietà fra Italiani e Austriaci. Questi ultimi occupavano la punta orientale, prossima al Passo; i nostri Alpini stavano su quella occidentale. Questa era la situazione che si presentava fin verso la fine di giugno del 1916. Avvenne, in quel frangente, che gli Austriaci stessero occupandosi del cambio di guarnigione. Sulla cima orientale del Cellon cadevano granate sparate dall’artiglieria italiana, così devastanti da costringere gli avversari a trovare riparo in caverna.

Verso mezzogiorno del 29 giugno 1916 gli Alpini, con la complicità di una fitta nebbia che avvolgeva i versanti del monte, sferrarono un deciso attacco prendendo di sorpresa il presidio austriaco, impossessandosi quindi della cima orientale e facendo 156 prigionieri, ivi compresi cinque ufficiali. La fortuna assistette due dei malcapitati che, avventurandosi guardinghi fra gli anfratti rocciosi, riuscirono a sfuggire alla cattura. Ma le alterne vicende che muovevano le sorti dei contendenti in quelle circostanze di estrema precarietà dovevano decretare un ritorno degli Imperiali nelle ore del pomeriggio sulla cima da poco persa. Non solo, ma i nostri avversari si diedero parecchio da fare per prendersi anche la punta occidentale, sennonché dovettero amaramente vedersela con una grandine di bombe a mano che respinse ogni loro velleitario tentativo di irruzione.

Medesimo tentativo fu ripetuto l’8 luglio. Chi guidava un gruppo di coraggiosi era il tenente austriaco dei Finanzieri, Weilharter; non fu fortunato: mentre scostò il capo oltre un masso per rendersi conto di dove si trovassero gli Alpini, un colpo di fucile ben mirato lo raggiunse al capo. Era stato un Alpino che manovrava alla stregua   dei cecchini, ma che restò subito dopo anch’egli vittima del fuoco nemico. Valutata la reazione della parte italiana, un passo avanti ancora, per l’avamposto austriaco, sarebbe stato foriero di sventura, cosicché il tentativo di porre piede sulla cima occidentale fu ben presto abbandonato. Non si riuscì neppure a recuperare il cadavere del ten. Weilharter per via della gragnola di colpi diretti dei nostri. Quel corpo inerme sarà recuperato dagli stessi Alpini che provvederanno alla sua sepoltura.

Una nota commovente nell’insieme delle crudeltà della guerra: Weilharter aveva precedentemente espresso il desiderio, qualora avesse perso la vita lassù, di essere sepolto fra le rocce del Monte Cellon. Aveva solo 48 anni; il suo sacrificio gli valse il conferimento della Medaglia d’Oro al V.M.

Dal Cimitero di Timau, dove era stato tumulato, il 29 giugno 1929 fu inumato; i suoi Resti vennero traslati al Passo di Monte Croce Carnico e deposti nell’Ossario della Cappella di Monte Croce. Era la circostanza che vide la restituzione all’Italia dei Resti del capitano Mario Musso di Saluzzo caduto, anch’egli in giovane età, appena 39 anni, sul Confine carnico nell’alta Val d’Incarojo il 14 settembre 1915. La restituzione, scortata da drappelli armati sia italiani sia austriaci, avvenne in forma di scambio con i Resti del tenente Weilharter.

Il Monte Cellon è ricordato, ancora, per un fatto molto triste, conclusosi tragicamente. Un comandante di compagnia aveva architettato un piano d’attacco per impadronirsi della cima orientale del monte, sennonché alcuni suoi caporali, nativi della zona e profondi conoscitori dell’orografia locale, osarono far notare che la direzione di attacco prevista dal loro capitano avrebbe portato gli Alpini al macello garantito. Questo atteggiamento, in un periodo già segnato da alcuni episodi di ammutinamento fra le truppe, in ottemperanza alle rigide disposizioni emanate dal gen. Cadorna voleva dire diserzione e fu così che il capitano deferì un’ottantina dei suoi sottoposti al Tribunale Militare Straordinario di Guerra. Il 29 giugno 1915 il Tribunale comminò le pene, fra cui la fucilazione dei 4 caporali per ribellione agli ordini superiori. La sentenza fu eseguita appena due ore dopo presso il Cimitero di Cercivento, non lungi da Paluzza.

Spunta l’alba del sedici giugno…

Terzo Alpini è sulla via, Monte Nero a conquistar! Era la notte fra il 15 e il 16 giugno 1915. Le nostre forze schierate sul Fronte Orientale si apprestavano alle prime azioni della guerra dichiarata all’Impero austroungarico.

Le intese strategiche avevano affidato al generale Etna, che era a capo dei Gruppi alpini denominati A e B, l’occupazione delle posizioni del Monte Nero (Krn in lingua slava), sino allora considerate imprendibili per via dell’asperità del terreno e della solidità difensiva disposta dagli avversari sulle dorsali del monte.

I reparti comandati dell’assalto per la conquista del Monte Nero, punto di notevole rilevanza strategica a 7 km est di Caporetto, in Slovenia, erano i battaglioni Exilles dal versante meridionale e Susa dal versante nord. Mosse all’attacco, sul lato sinistro, l’84a compagnia alpina del batt. Exilles, comandata dal capitano Vincenzo Arbarello di Torino. La compagnia si era mossa dalla sua base di partenza di Kozliak, poco a sudest del Monte Nero, verso la mezzanotte del 15 giugno. Erano 130 Alpini su tre plotoni che iniziarono la scalata guadagnando tratto a tratto la cresta rocciosa del monte, guardinghi e cauti per non farsi scorgere dalle sentinelle austriache. Davanti a tutti, il sottotenente Alberto Picco di La Spezia con una pattuglia di cinque Alpini esploratori.

Sul versante di destra, vincendo le asperità delle chine scivolose e scoscese, s’inerpicava la 31a compagnia, agli ordini del capitano Rossi. L’avanzata si svolgeva in ordine e in perfetto silenzio, tanto che gli Austriaci di vedetta sulla cima del monte si accorsero della presenza dei nostri Alpini soltanto verso le 3,30 e quella fu l’ora in cui si scatenò un fuoco infernale fra le opposte formazioni.

La pattuglia alpina di punta, guidata dal s.tenente Picco, avvertiti i primi sentori del confronto armato accesosi fra il batt. Susa e gli antagonisti, fu la prima a lanciarsi nella mischia. Al suo seguito avanzava il capitano Arbarello con il plotone di testa della 84a compagnia e, a mano a mano, sopraggiungeva il resto della forza in campo. Gli Austriaci si batterono aspramente in difesa, ma l’impeto irresistibile degli Alpini li costrinse ben presto a cedere e a battere in ritirata. Lasciarono sul terreno di battaglia diciotto caduti, mentre una decina di loro fu costretta alla resa e fu tratta in prigionia. Il battaglione Susa, oltrepassato un nevaio ghiacciato, riusciva ad aggirare le difese austriache, a sorprenderle e a catturare un battaglione avversario al completo. Poco più di un’ora era durato l’attacco che costò agli Alpini numerose dolorose perdite in vite umane. Prima dello scoccare delle cinque del 16 giugno la conquista del Monte Nero era un fatto compiuto.

Nel breve ma furibondo scontro cadde eroicamente il s.tenente Alberto Picco. Per il valore, l’entusiasmo e lo spirito di abnegazione sarà insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare.

L’impresa, arditissima per le difficoltà incontrate e superate con rara perizia e sangue freddo, valse una serie di onorificenze conferite ai protagonisti: oltre al s.tenente Picco, la MAVM al s.tenente Valerio Vallero di Susa e ai battaglioni Exilles e Susa, la Medaglia d’Oro al Valor Militare al capitano Vittorio Varese che comandava la 35a compagnia, il Cavalierato dell’Ordine Militare di Savoia al capitano Vincenzo Arbarello, al capitano Giorgio Fabre e al maggiore Giuseppe Treboldi (da Tullio gen. Vidulich, “Storia degli Alpini”, Ed. Panorama, 2002; da Gianni Oliva, “Storia degli Alpini”, Ed. Mondadori, 2001).

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