Il mio “spero” pedagogico
6. Canoni disciplinari e pensiero narrativo. Come aiutare i bambini con difficoltà scolastiche
6.1. Che cosa dovrebbe fare (o non fare) la Scuola per gli alunni
Il sistema scolastico come attualmente viene percepito e gestito mobilita le preoccupazioni e le cure degli operatori scolastici verso il buon risultato delle prove: verifiche, esami di licenza. È ciò che prevale nella diffusa concezione del come e del perché fare scuola: in fondo in fondo sono gli esami e le implicazioni di merito che ai loro esiti si legano a imprimere, nei loro contenuti, struttura al curricolo il quale, a sua volta, regola la natura dell’indirizzo didattico e della formazione professionale riservata ai docenti.
Al contrario, se ci vogliamo immergere in una concezione di conoscenza altamente finalizzata alla completa umanizzazione della persona, dovrebbero proprio essere gli esami – e il modello delle ripetizioni mnemoniche che da essi è in prevalenza richiesto – a occupare un ruolo subordinato nel complesso delle intese educative. La quantità di informazione o di conoscenza che gli alunni acquisiscono ha, peraltro, minore incisività per la loro educazione globale rispetto ai valori che derivano dallo sviluppo della capacità intellettuale di giudizio, e questa capacità non proviene automaticamente dall’applicazione allo studio di per se stessa.
E allora parliamo di educazione dell’uso del pensiero. Benché possa essere discutibile, per una certa parte degli operatori scolastici, se proprio si possa insegnare a pensare, si dà tuttavia per certo che il pensiero può, in ogni caso, essere stimolato. Una prima cosa da farsi riguarda l’incoraggiare i bambini a pensare e a creare da se stessi anziché continuare noi a creare e a pensare per loro. Fondamentalmente si tratta di esercitarli a discutere i concetti che essi prendono sul serio. Quando si avvedono che le domande poste all’insegnante vengono prese in considerazione, gli studenti sono portati ad attribuire maggiore rispetto all’insegnante stesso, proprio per il fatto che egli ha saputo prendere sul serio le loro domande, persino se questo si risolve nel rispondere a una domanda con un’altra domanda. Sono queste le occasioni propizie per insegnare la differenza fra il ragionare in modo solido e il farlo alla leggera (fra un ragionamento valido e uno di basso valore).
È necessario superare la visione superspecializzata della conoscenza. Gli studenti hanno bisogno, innanzitutto, di globalità e di senso della prospettiva. Ancora non possiedono un quadro di riferimento completamente formato entro il quale inserire le esperienze che vanno facendo; ne deriva che tali esperienze finiscono per avere, nei loro confronti, un aspetto enigmatico e confuso. È questo il motivo per cui il processo educativo deve essere impostato in modo tale da sfidare la capacità immaginativa dei ragazzi, da stimolare i loro processi intellettuali e da offrire loro le direttive che consentano alle diverse materie del curricolo di integrarsi reciprocamente. Il processo educativo dovrebbe creare attività di pensiero fra gli alunni che apprendono. Gli studenti che hanno appreso a essere curiosi in modo sistematico e riflessivi in modo naturale sono portati a estendere tali comportamenti a tutti gli altri ambiti dell’apprendimento. La classe dovrebbe trasformarsi in un luogo di discussione che possa prendere in considerazione i temi attinenti ai problemi degli studenti, temi sufficientemente vari e tali che l’attività non sia ridotta agli aspetti operatori dell’intelligenza, ma comporti anche l’assunzione di argomenti contemplativi e creativi. Tornerò ancora, anche ripetutamente, su questo aspetto dell’argomento poiché lo ritengo di vitale importanza per il successo nell’apprendimento e nella stessa acculturazione funzionale.
6.2. Il posto della logica
Il pensiero logico può essere stimolato soltanto attraverso l’attività creativa e, di converso, la creatività può essere stimolata attraverso lo sviluppo della capacità logica. La logica ci aiuta a distinguere fra modi migliori e peggiori di ragionare. Forse non elimina i nostri errori, ma quantomeno ci aiuta a riconoscerli. Il proposito fondamentale della logica formale è aiutare gli alunni a scoprire che possono pensare sul proprio pensiero in modo ordinato. La logica formale può aiutare gli scolari a divenire più consapevoli del fatto che sia possibile pensare in modo organizzato, ma di per sé non è sufficiente: essa necessita della compresenza di un secondo tipo di logica, capace di tener conto dell’ampia varietà di situazioni che richiedono l’attivazione del pensiero decisionale. Questo secondo tipo di logica può essere definito come “impostazione delle buone ragioni”. Essa non è dotata di regole specifiche, ma va piuttosto alla ricerca di ragioni che riguardino una determinata situazione e si propone di avallare le ragioni che sono state fornite. Qui non emerge tanto il proposito di valutare i propri pensieri e quelli altrui in relazione alle azioni e agli eventi, ma viene piuttosto in luce l’opportunità, per gli alunni, di scoprire l’ampia possibilità di applicazioni che un pensiero strutturato e decisionale può avere. Il cercare ragioni sottintende il raggiungimento della consapevolezza circa le implicazioni legate alla percezione, all’espressione verbale e all’evidenza del contesto nel quale si va sviluppando la ricerca, e il saper considerare queste implicazioni come passi del pensiero, ai quali si dà il nome di inferenze.
Una buona ragione si riveste di alcune caratteristiche: si basa sui fatti, è pertinente rispetto all’oggetto di indagine, serve da appoggio all’argomento di ricerca rendendolo plausibile e intelligibile, fa sempre riferimento a qualcosa di familiare quando viene impiegata per spiegare l’oggetto della ricerca. I principali sforzi della logica delle buone ragioni consistono nel mantenere il processo di ricerca e nell’incoraggiare la valutazione delle ragioni. I bambini, tanto più se sono più giovani, non sono in condizione di valutare la ragione di qualcosa, posto che non comprendano con chiarezza di che si tratti. Hanno quindi bisogno di imparare ad ascoltarsi l’un l’altro e ad ascoltare se stessi quando discutono il tema in questione. Hanno soprattutto bisogno di cogliere le ragioni proposte e di avere tempo a disposizione per farne oggetto di pensiero nel contesto della ricerca. Imparare ad ascoltare se stessi e gli altri in una comunità di ricercatori è qualcosa di essenziale nella logica delle buone ragioni. L’imparzialità, l’obiettività, il rispetto per le persone e la ricerca di ragioni ulteriori dipendono dal fatto che si presti accurata attenzione tanto ai propri pensieri quanto ai pensieri degli altri. Il proponimento fondamentale di questa logica è quello di stimolare gli alunni a usare in modo attivo il pensiero nelle proprie vite, di offrire loro i mezzi che consentano di prestare attenzione ai loro pensieri e al modo in cui i loro pensieri e le loro riflessioni possono prendere parte attiva nelle loro vite. Insieme alla scoperta del fatto che certi tipi di pensiero sono retti da regole, dovremmo anche ottenere dagli alunni che diventino consapevoli dei differenti modi di pensare, tali come l’immaginare, il sognare, il deviare nella finzione. Gli alunni potranno allora rendersi conto del fatto che, mentre il loro pensiero presenta di solito una forma logica, una gran parte di esso non la dimostra o non ne sente la necessità. Questa è la chiave per introdurre e sviluppare la logica infantile: mai come un farraginoso insieme di formule, ma bensì sempre nel contesto del pensiero riflesso, specialmente in presenza di uno sforzo per pensare con maggiore chiarezza sul proprio pensiero.
Le domande logiche hanno a che vedere con il ragionamento. La relazione che lega la logica al pensiero è simile alla relazione che lega la grammatica al linguaggio. La logica ci fornisce le regole che dobbiamo seguire se vogliamo pensare bene; essa sottolinea l’importanza dell’essere coerenti nel pensare, nel parlare e nell’agire. In quanto all’insegnante, è bene ricordare che ella/egli non dovrebbe arrivare mai al punto di dare l’impressione di aver esaurito il bisogno di porsi domande. Facendo ricorso a una domanda apparentemente incongruente, l’insegnante può portare lo studente a sviluppare una comprensione personale di come si possano spiegare situazioni o eventi considerati. È questo movimento da spettatore a protagonista del tema in questione a consentire allo studente di ricoprire un ruolo più attivo nel processo stesso della ricerca.
6.3. Durante una discussione filosofica
Filosofica, può essere pertinente? Certamente, e si tratta di un punto forte nella ricerca della comprensione. Riprendo qui un’affermazione chiave del fare scuola in modo significativo: quello di tralasciare in prima istanza le declamazioni che gli alunni sono costretti a bare d’un fiato e a memorizzare e, per converso, impostare una didattica dove idee, presupposti, convinzioni, punti di vista, valutazioni sono messi a confronto in una situazione interattiva-costruttiva. L’insegnamento in chiave filosofica consiste nel riconoscere e seguire molto da vicino ciò che gli studenti stanno pensando, aiutandoli a esprimere e a obiettivare i loro pensieri, aiutandoli quindi nello sviluppare gli strumenti necessari per la riflessione su tali pensieri, in una parola comunicando passione per il valore del pensare, per il processo di creatività e per il comportamento. L’educazione sotto il punto di vista filosofico è maggiormente efficace quando stimola le persone e permette loro di coinvolgersi nella confutazione critica e nella riflessione inventiva.
Quanto si verifica sul piano della conoscenza nel corso del procedere di una discussione in classe non è legato al conseguimento di una conclusione specifica. Il ruolo dell’insegnante durante una discussione è quello di chi pone domande appropriate, nella ricerca e selezione di opportunità che favoriscano negli alunni l’esplorazione di nuove prospettive e la consapevolezza di come le idee si intreccino e si rafforzino vicendevolmente. Per condurre una discussione filosofica è necessario sviluppare sensibilità nel sapere quale tipo di domanda sia appropriato in ciascuna situazione e quale sia la sequenza con la quale si possano porre tali domande. I docenti devono essere disposti a esaminare idee, a investigare attraverso il dialogo e a rispettare lo spirito degli studenti impegnati nell’apprendimento. La discussione in classe deve muovere dagli interessi degli alunni. L’insegnante può chiedere agli alunni il loro punto di vista. Se essi si dimostrano titubanti, l’insegnante può chiedere, a chi ha proposto il tema della discussione, di sviluppare un po’ di più la propria idea. Il docente può andare anche oltre la semplice determinazione di aiutare gli studenti a chiarire i propri punti di vista mediante la riformulazione; può cercare di esplorare non solo ciò che essi dicono, ma anche il senso di ciò che dicono. L’insegnante deve essere capace di esemplificare una interminabile ricerca di senso allo scopo di ottenere risposte più comprensive circa gli argomenti importanti della vita. Esiste una differenza fra chiedere a un alunno “Stai dicendo che …” e chiedergli “Ciò che dici implica che …”. È la differenza fra ciò che si afferma e il modo in cui tale affermazione deve essere interpretata. Ma, prima di soffermarsi su che cosa implichi l’interpretare le affermazioni degli studenti, l’insegnante deve porre attenzione su che cosa è la spiegazione. La spiegazione si situa tra la riformulazione non travisata e l’interpretazione. Quando attingiamo significati, stiamo facendo interpretazione.
Nel condurre una discussione filosofica è molto importante essere coscienti non solo di ciò che si sta dicendo, ma anche di come i vari membri della classe stanno interpretando ciò che si sta dicendo. Ci sono due modi di cogliere il significato di ciò che si sta dicendo: inferire ciò che è logicamente implicito e inferire ciò che si sta suggerendo nonostante non sia logicamente implicito. L’interpretazione riguarda la rivelazione del significato attraverso la scoperta di ciò che è implicito e di ciò che si sta suggerendo nella formulazione che qualcuno può aver espresso.
Il ruolo appropriato dell’insegnante è quello di incoraggiare a coltivare una ricca gamma di stili di pensiero, di stimolare la creatività intellettuale tanto quanto il rigore intellettuale. Compito suo è quello di aiutare gli studenti a dominare mezzi come le regole dell’inferenza logica e le norme da seguire durante la discussione in classe. Dipende dall’insegnante valutare se l’argomento ha implicazioni filosofiche, quali sono i temi filosofici impliciti e guidare gradatamente gli studenti verso una discussione su questi temi. Quando gli insegnanti possiedono la capacità di coltivare il pensiero dei loro alunni mediante la formulazione di domande, il risultato finale sarà quello di studenti che possono pensare da sé in qualunque aspetto della propria esperienza.
L’insegnante dovrebbe essere provocatorio, problematizzante, intollerante nei confronti del pensiero trascurato, a fronte di studenti desiderosi di sprofondarsi in un dialogo che li sfidi a pensare e a produrre idee. Descritta con il minimo di parole, la situazione ideale sarebbe quella che vede un insegnante che pone domande a un gruppo di studenti preparati a discutere quelle cose per le quali provano reale interesse. Il docente non deve aver timore a sfidare le supposizioni formulate dagli alunni, persino nel caso le condivida, se ciò che proviene da questa sfida si profila nella forma di un atteggiamento più vivace degli studenti di fronte al tema.
Una buona classe può essere quella in cui gli studenti sono coinvolti in una discussione animosa che riguardi l’una o l’altra cosa del libro di testo (il libro di testo dovrebbe essere un modello di scoperta attraverso la pratica), quantunque la conversazione possa discostarsi piuttosto dal tema originale. Queste discussioni sono capaci di generare impressioni durature negli studenti. Se, per altro verso, l’insegnante incoraggia gli studenti ad accettare risposte, a non essere critici, a memorizzare dati che non capiscono, se si dà da fare a proporre verifiche che non implichino la creatività o la comprensione attiva, probabilmente i suoi studenti si formeranno l’impressione che tanto più saranno educati quanto più avranno assimilato dati in quantità. E difficilmente è questo il modo migliore di concepire l’educazione. Ciò che senza ombra di dubbio un insegnante deve evitare è qualsiasi intervento capace di arrestare il pensare degli studenti prima che essi abbiano avuto l’opportunità di vedere dove le loro idee li possono portare. Allo stesso modo è da evitare la manipolazione del processo di discussione volta a ottenere che gli studenti assumano le convinzioni personali dell’insegnante. I docenti che, con insistenza, introducono i propri punti di vista corrono il rischio, se non proprio di addottrinare, quanto meno di favorire inibizioni che, presto o tardi, causeranno l’estinguersi della discussione stessa.
L’ideale di persona educata si rispecchia in qualcuno che sia intellettualmente aperto, curioso, autocritico e capace di ammettere ignoranza o indecisione. Quando un insegnante ha la pretesa di sapere tutto, gli studenti finiscono per formarsi l’idea che la conoscenza consista nel saper fornire risposte. Anziché costringere l’alunno nel processo di acquisizione di conoscenza, l’insegnante, con tutte le sue risposte (o il docente che impone agli alunni di ripetere le risposte), ha deprivato i suoi scolari di un godimento che potrebbe essere loro tanto utile negli anni successivi: la soddisfazione di trovare le risposte da se stessi. La relazione esistente fra questa soddisfazione e l’essere una persona ricca di immaginativa, di curiosità e di vivacità intellettuale è molto intensa. L’insegnante che offre l’immagine di uno che possiede tutte le risposte può essere visto come uno che sa tutto e, pertanto, può arrivare a scoraggiare gli studenti dall’esplorare, dal contestare e dal ricercare soluzioni più globali.
Quando l’insegnante chiede ai suoi alunni Perché? li sfida ad andare più a fondo nelle loro presupposizioni, a fare migliore uso dei propri mezzi intellettuali, a scoprire proposte più immaginative e creative di quelle a cui sarebbero pervenuti se il ruolo del docente nei loro confronti si fosse limitato a fornire dati.
6.4. Nella Scuola, in concreto
Diamo ora un fugace sguardo su quali possano essere i terreni utili per una efficace evoluzione del processo educativo:
• A livello di Scuola dell’Infanzia e nel primo anno della Scuola Primaria gli sforzi sono indirizzati verso l’acquisizione del linguaggio e alla cura delle forme di ragionamento. Si fa il punto sulla consapevolezza percettiva, sulla condivisione di prospettive attraverso il dialogo nei processi di classificazione e di differenziazione quando si ragiona sui sentimenti. Si imprime sviluppo alla libertà di pensiero nel bambino, anche nel senso di attribuire considerazione agli stili di pensiero divergenti individuali. Si incoraggia l’apparizione e la crescita della capacità critica, della capacità di orientarsi e di compiere scelte autonome in contesti relazionali e normativi diversi. Si colgono adeguate opportunità per conferire senso alle esperienze. Si consolidano i necessari atteggiamenti di sicurezza, di stima di sé, di fiducia nelle proprie capacità, di motivazione alla curiosità. Si dà risalto alla esigenza vitale di vivere in modo equilibrato e positivo i propri stati affettivi, di esprimere e controllare i propri sentimenti, le proprie emozioni e di sviluppare sensibilità verso gli stati emotivo-affettivi altrui.
• Durante il periodo della Scuola Primaria si presta maggiore attenzione alle strutture semantiche e sintattiche della comunicazione, come l’ambiguità, i concetti che stabiliscono relazioni e le nozioni filosofiche astratte quali la causalità, lo spazio, il numero, la persona, la classe e il gruppo. Verso l’ultimo anno di frequenza ci si orienta con intenzionalità particolare sulla acquisizione della logica formale e informale, mentre si volgono gli sforzi per promuovere la creazione in classe di una comunità di ricerca. È il periodo in cui i ragazzi vanno progressivamente conquistando l’autonomia di giudizio, di scelte e di assunzione di impegni, mentre la stessa autonomia di giudizio, unitamente alla capacità creativa e divergente, subisce una forte spinta evolutiva con il supporto di un adeguato equilibrio affettivo e sociale e di una positiva e consapevole immagine di sé. Qui si inserisce una progressiva sperimentazione di forme di lavoro collaborativo all’interno delle quali si viene rafforzando la capacità di pensiero riflesso e critico, quella che sarà seguita da più costruttive capacità di pensare al futuro per prevedere, prevenire, progettare, cambiare e verificare (dal linguaggio dei Programmi Ministeriali).
• Gli alunni della Scuola Secondaria di primo grado sono coinvolti nella specializzazione filosofica di base negli ambiti della ricerca etica, del linguaggio e degli studi sociali. Si fa energicamente leva su tutto un insieme di possibili esperienze capaci di suscitare negli studenti interesse e motivazione nei confronti dell’apprendimento. In questa fase evolutiva si assiste a un prorompente sviluppo della capacità sociale che si esprime nel complesso intreccio di reciproche relazioni e di collaborazione. L’interazione educativa nei rapporti interpersonali che investono aspetti relazionali, affettivi, emotivi, etici va a ricoprire un ruolo fondamentale. È il periodo più favorevole per l’impostazione del lavoro di gruppo volto a veicolare esperienze di cooperazione e ad affinare l’evoluzione delle capacità critiche nei confronti della realtà. Tale contesto si esprime in un clima che consenta allo studente di riporre fiducia nelle proprie possibilità, di esprimere liberamente e criticamente opinioni e proposte.
6.5. Per concludere …
Se rifiutiamo di riconoscere la razionalità dei bambini non potremo coinvolgerci in modo soddisfacente in un dialogo filosofico con loro, perché non saremo in grado di accettare i loro interventi in veste di ragioni. Se non possiamo fare filosofia con i bambini finiamo per spogliare la loro educazione della genuina componente che sola può rendere tale educazione più significativa. E se neghiamo ai bambini una educazione significativa diamo per scontato che essi cresceranno sotto il dominio dell’ignoranza, della irresponsabilità e della mediocrità che frequentemente regnano fra gli adulti. Forse sarà trattare i bambini come persone il prezzo che dobbiamo pagare a lungo andare per conseguire miglioramenti sociali sufficientemente sostanziali (da: Lipman, Sharp, Oscanyan, 1980 – Lipman, 1988).
Nell’atto di entrare in questa parte del discorso partiamo subito da alcune affermazioni forti. Intanto va detto, richiamando concetti non nuovi, che il bambino si inserisce via via nella vita sociale del gruppo di appartenenza nel momento in cui riesce anche a partecipare a un processo, più ampio e pubblico, di negoziazione di significati collettivi. Dunque egli è sempre comunque immerso in una vita pubblica la quale a sua volta regge su una rete di significati pubblici e di procedure condivise di interpretazione e di negoziazione sufficientemente chiari e accessibili all’analisi individuale. Inoltre l’evoluzione, sia del singolo sia del gruppo, vado a ribadire, non può essere garantita se non è corroborata da una forza strutturante che deriva dall’incontro della cultura di quel gruppo con la ricerca del significato. Tutto ciò va oltre i limiti imposti dalla biologia e discopre nuovi interessanti itinerari di ricerca.
Osservazioni portate sul campo e applicate alla cooperazione fra pari nell’apprendimento scolastico hanno rimarcato a più riprese l’attivazione di auspicate capacità relative allo svolgimento di un compito comune all’interno di coppie di bambini che cooperavano su canali di comunicazione narrativa. Le cose si presentavano in modo del tutto diverso nelle coppie di bambini che davano la preferenza a criteri logici di comunicazione. Si constatava, addirittura, che le differenze rilevate inizialmente fra bambini, dovute alla presenza di situazioni di svantaggio socio-culturale, subivano una caduta o, almeno, erano favorevolmente ridimensionate con l’instaurarsi di un ambiente di cooperazione adeguatamente mirato alla elaborazione del conflitto di natura sociale.
Numerosi studi e deduzioni teoriche concordano su questo punto e vanno a enfatizzare il vantaggio che proverrebbe ai singoli bambini attraverso la interiorizzazione dei processi cognitivi attivati nei contesti comunicativi e interazionali fra pari, soprattutto attraverso la verifica delle ipotesi e dei punti di vista relativi a centrazioni cognitive dissimili, attraverso la selezione di strategie e la rappresentazione simbolica dei processi mentali. Il centro di energia dell’approccio interattivo in situazione asimmetrica starebbe nello sforzo collaborativo volto a creare reciproco riconoscimento e a produrre apprendimento per mediazione di significati che prenderebbero forma lungo un percorso progressivamente costruttivo. La situazione sociale di confronto consente di intercoordinare i contenuti mentali, i punti di vista, gli stili decisionali, mentre induce modificazioni di struttura dell’approccio individuale al compito, incrementando al tempo stesso il livello motivazionale e la possibilità di comprensione.
All’interno di questa impostazione didattica l’insegnante riveste il ruolo di mediatore, di regista, di provocatore, di valorizzatore, di organizzatore, con alcuni particolari compiti di rilievo:
a) assistere e controllare l’evoluzione dei processi dialettici,
b) astenersi dall’interferire sui processi costruttivi, evitando il preconfezionamento e la trasmissione immediata dei contenuti di conoscenza,
c) sollecitare e mantenere il conflitto socio-cognitivo di comunicazione a un livello medio e tollerabile di attivazione,
d) sollecitare gli alunni a fornire giustificazioni verbali in merito alle prese di posizione manifestate,
e) evitare che si vadano formando livelli di supremazia e/o di sudditanza,
f) effettuare scelte, selezioni, stabilire priorità nell’insieme dei contenuti di apprendimento,
g) accettare le risposte e le proposte divergenti, ancorché bizzarre, tenendole nella loro giusta connotazione di risorse,
h) prevedere l’attivazione di un contesto comunicativo fondato in parte anche sul richiamo al pensiero e al discorso narrativo, nella ammissione che le proposizioni logiche possano essere meglio comprese se inserite in una storia,
i) evitare che gli alunni siano sfiorati dall’impressione di essere stati lasciati a cavarsela da soli.
Come avremo modo di vedere ampiamente nel prosieguo di questa dissertazione, è da farsi una utile distinzione fra bambini prevalentemente logici e bambini prevalentemente cosiddetti divergenti. I primi prediligono il ricorso al pensiero paradigmatico nella soluzione dei problemi, adottando un modo di pensare che va, per così dire, dall’alto al basso, in omaggio a esigenze formali di descrizione-esplicazione. Da qui la capacità di costruire ipotesi strettamente aderenti a princìpi, di affidarsi a procedure garanti di verificabilità sistematica. I secondi, per altro verso, vale a dire i bambini divergenti, sono più propensi a muoversi secondo una modalità narrativa di pensiero, privilegiando una direzione che va dal basso verso l’alto, con la produzione di racconti plausibili, ragionevoli, dotati di verosimiglianza più che di veridicità, attratti dalla dimensione spazio-temporale degli eventi.
I bambini narrativi, che dovrebbero essere quelli meno logici e, quindi, dotati di minori affinità costituzionali con le richieste dell’apprendimento scolastico, in causa della loro divergenza si distinguono dai loro compagni logico-categoriali per la padronanza di maggiore mobilità nella individuazione, nella generazione e nella selezione di strategie cognitive e per la dimostrazione di un maggiore grado di flessibilità nel tentativo di tenere nella dovuta considerazione il punto di vista altrui in situazioni di interazione sociale. I ragazzini dotati di pensiero narrativo, in particolare, sono portati ad attivare modi originali nel far uso della propria intelligenza, specializzandosi nel trattare i problemi che riguardano le intenzioni e le interazioni umane.
Poiché parliamo di insuccesso scolastico, e poiché sono proprio i ragazzi divergenti quelli che sembrano essere più a rischio nello sforzo di far fronte alle richieste della scuola, attardiamoci un altro po’ per fare il punto sulle “interazioni umane” in ambito scolastico. L’alunno non apprende da solo, con le sole risorse innate della propria mente; la sua vera eredità, a pensarci bene, è di natura sociale. Lo scolaro apprende ricevendo stimoli, informazioni, ma anche osservando, imitando modelli, elaborando in modo del tutto originale le impressioni ricevute. Egli opera un continuo rimbalzo dialettico di significati, di confronti, di posizioni personali, di modificazioni; incontra ostacoli, entra in conflitto, rielabora, esplora, riconfronta, riscopre, costruisce, riconosce, ricostruisce. Tutto ciò stimola la continua strutturazione e ristrutturazione del suo potere di concettualizzazione; ma, perché possa verificarsi, tutto l’insieme richiede che l’assetto organizzativo della didattica abituale venga revisionato alla luce di soluzioni che, a loro volta, assumano un carattere divergente. È comunque da ribadire, dopo tutto il discorso che è stato fatto sin qui, l’importanza di altri parametri all’interno delle dinamiche di apprendimento, oltre a quello propriamente cognitivo.
Si era parlato del concetto di Sé e si è visto, a grandi linee, quali possano essere i riflessi di un Sé ben formato sulla qualità degli apprendimenti. Siamo anche andati un pochino più a fondo nel complesso delle cause che si frappongono a una equilibrata strutturazione del Sé, risalendo alle origini dei rapporti interpersonali che vi sono sottesi. Forse le conclusioni provvisorie che sono state inferite hanno indotto a immaginare una certa irreversibilità dei risultati conseguenti alle dinamiche di attaccamento primario. Non è completamente così. Si dà, infatti, la possibilità di modificare il concetto di sé lungo l’arco evolutivo, una possibilità che appartiene anche alle competenze della Scuola. Il modo accettante, distaccato o rifiutante di relazionarsi a un alunno, da parte degli insegnanti, può fornire numerosi esempi in merito. Sul versante positivo si deve puntare a operare concretamente e realisticamente, attraverso approcci costruttivi mirati a favorire nell’alunno la progressiva apparizione della consapevolezza del suo saper fare e del suo saper essere. L’alunno, cioè, deve pervenire ad un punto di capacità e di competenza tale da consentirgli di avere in mano strumenti efficaci per affrontare la conoscenza e di poterli utilizzare con soddisfazione. Deve, inoltre, incontrare una sorta di riconoscimento pubblico per i propri successi parziali all’interno del gruppo-classe, nel momento stesso in cui possiede la sicurezza del necessario sostegno per le situazioni e i momenti che lo richiedano. L’atmosfera della classe deve consentire spazi opportuni di libertà per l’espressione di idee e di sentimenti personali, fugando il timore di essere censurati o derisi per una eventuale sortita non pertinente. Tutto questo in un clima sereno di accettazione, di rispetto reciproco, di coinvolgimento naturale, consapevole e democratico.
Mi avvio alla conclusione di questa carrellata sulle difficoltà di apprendimento e di adattamento scolastico con il rivisitare uno dei punti trattati all’inizio, quello che riguardava la depressione negli studenti. Anche per questo aspetto invero critico della evoluzione personale è possibile fare qualcosa, nonostante le connotazioni pesantemente negative di cui esso si riveste in merito ai processi culturali e formativi percorsi dallo scolaro nel tentativo di acquisire la piena realizzazione di un Sé integrato.
La scuola assorbe una significativa parte del tempo che il bambino ha a propria disposizione. Questo è un buon motivo perché gli insegnanti si occupino, fra l’altro, anche del riconoscimento di eventuali sintomi che stanno a dissimulare una conformazione depressiva e, dunque, della identificazione degli alunni che ne sono gravati. A questo riguardo occorre comunque precisare da subito che non è neppure la rilevazione dei sintomi a rivestire la maggiore importanza in questo ambito educativo, quanto piuttosto il riconoscimento dei cambiamenti che si vanno via via verificando nel comportamento del ragazzo colpito da sindrome depressiva. Può accadere, per portare un esempio concreto, che un bambino, abitualmente irritabile e spiccatamente reattivo si trinceri improvvisamente in atteggiamenti di passività e di apatia. Oppure può succedere il contrario. Sul piano relazionale, nella analisi delle difficoltà di un bambino depresso, si suole parlare di stress emozionale. Se si pone mente alla possibilità che lo stress emozionale sia spesso una condizione esistenziale che si è venuta instaurando come conseguenza di atteggiamenti di indifferenza adottati in precedenza dai genitori del bambino, e della trascuratezza sostanziale con la quale essi sono stati soliti trattare il figlio, se si attribuisce il dovuto peso alle situazioni familiari stressanti nelle quali il bambino è cresciuto, si può comprendere dove vadano ad affondare le proprie radici le difficoltà del bambino sofferente e quale sia la portata evolutiva di questa sofferenza sulle garanzie successive di realizzazione. A maggior ragione se l’indifferenza, la trascuratezza, i vissuti familiari stressanti si sono stabiliti in periodi precoci dell’esistenza del bambino, in considerazione, al tempo stesso, della loro gravità e della loro durata lungo tutto il corso evolutivo. È dunque essenziale che la scuola non soltanto eviti di ricalcare gli errori perpetrati precedentemente in ambiente familiare, ma si sforzi di porre in atto ogni strategia utile a rinforzare il Sé del bambino, a restituire al bambino la necessaria fiducia in sé, nelle proprie forze, negli altri e nel significato della relazione sociale.
Quando si parla di disciplina, di interdisciplinarietà, di unitarietà della cultura a scuola, non si fa altro che puntare l’attenzione sul significato e sulla sua costruzione attraverso la partecipazione ai sistemi simbolici della cultura che consentono di dare significato all’azione inserendo gli stati intenzionali profondi del soggetto, come ricordato precedentemente, in un sistema interpretativo. I sistemi simbolici della cultura si servono di modelli quali il linguaggio, le modalità del discorso, la spiegazione logica, la spiegazione narrativa, e altre espressioni di vita sociale.
Qui si fa richiamo a una dimensione per certi versi inusitata del pensiero, quando cioè si accenna agli stati intenzionali nei quali risiedono le credenze della persona, i desideri che essa coltiva, i significati che attribuisce alla realtà. Facendo il punto sugli stati intenzionali il riferimento va in via privilegiata al parametro narrativo anziché a quello logico o categoriale. Occuparsi del bambino sul fronte narrativo significa guardare a lui in quanto soggetto umano che compie azioni basate sulle proprie credenze e sui propri desideri, percorrendo una particolare sequenza di eventi, stati mentali, avvenimenti nei quali il bambino stesso si trova a essere coinvolto come personaggio e come attore. Il pensiero narrativo, dunque, riguarda il materiale dell’azione e dell’intenzionalità umana creando una zona di mediazione tra il mondo canonico della cultura e il mondo delle credenze, dei desideri, delle speranze, decisamente più idiosincratico e intenzionale. La narrazione, a quanto sostiene Jerome Bruner, è una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella comunicazione umana. Perché sia efficace, tuttavia, una narrazione deve essere corredata dall’incontro di quattro componenti grammaticali fondamentali. In primo luogo necessita di un mezzo che consenta di porre in rilievo l’azione umana, i suoi risultati e, in particolare, l’interazione umana. Un secondo requisito risiede nella sensibilità verso ciò che è canonico e verso ciò che diverge dalla canonicità dell’interazione umana, assieme alla capacità di concentrare l’azione e l’elaborazione dell’informazione sugli elementi del discorso che si rivelano insoliti. In terza istanza si richiede che gli eventi e gli stati descritti nella narrazione vengano mantenuti in un ordine sequenziale; il bambino, cioè, deve saper padroneggiare le forme grammaticali e lessicali e fare buon uso dei connettivi temporali e causali per attribuire alle sequenze discorsive un’articolazione adeguata. In ultimo la narrazione richiede la prospettiva del narratore.
Ciò che emerge con grande interesse per i bambini portatori di difficoltà, dal contesto che vado analizzando, è la possibilità di acquisizione del linguaggio, scoperta nella sua espressione più ampia quando l’esperienza viene organizzata in modo narrativo. Le stesse proposizioni logiche incontrano più frequenti probabilità di comprensione se sono inserite in una storia. È rilevante quanto alcune ricerche in merito alle differenze fra queste due tipologie hanno messo in luce. Ne verrebbe che i bambini narrativi si scostano dai loro compagni logico-categoriali per maggiore mobilità di strategie cognitive nelle prove di memoria e per maggiore flessibilità nel tentativo di tenere conto del punto di vista altrui in situazioni di interazione sociale.
A questo punto, dopo aver percorso gli spazi relativi alle difficoltà dei bambini in fase di apprendimento, agli insuccessi e ai disagi che da tali difficoltà possono derivare, agli aspetti paradigmatico e narrativo che possono consentire di capire meglio chi è, come pensa, come si colloca all’interno del contesto il bambino difficile, diamo un rapido sguardo alle opportunità che si presentano nel senso dell’aiuto che si può dare al bambino svantaggiato. Da quanto è via via trasparso dall’esposizione precedente andremo a ravvisare una di queste opportunità nell’interazione umana e a questo proposito porteremo avanti alcune essenziali riflessioni.
6.6. L’interazione tra coetanei
(fonte: Autori Vari, a cura di Ada Fonzi, Università di Firenze, in Età Evolutiva, Giunti, Firenze, n° 44, 1993, pagg. 53-93).
Prendendo in considerazione i problemi dei bambini con difficoltà introdurrò il discorso ponendo come punto di partenza la forte valenza evolutiva scoperta all’interno del rapporto di comunicazione fra bambini della stessa età. Il riferimento è per la relazione che legherebbe determinate esperienze di apprendimento condivise fra coetanei e lo sviluppo di abilità socio-cognitive.
Tornando un po’ a ciò che diceva J. Bruner, possiamo qui riprendere un’asserzione riportata nelle pagine precedenti ossia quella secondo la quale l’eredità presente alla nascita di un bambino, oltre e più di quella biologica, è di natura sociale. In questa linea, percorrendo il filone che da J.M. Baldwin (1897) giunge fino a L.S. Vygotskij e alla Psicologia Sociale Genetica (Università di Ginevra e di Bologna), si arriva a definire lo sviluppo, e quindi anche l’apprendimento che lungo il suo volgere si realizza, nei termini di processo circolare regolato dal concetto di imitazione persistente. Lo sviluppo, così inteso, non starebbe a significare pura e semplice capacità assimilativa, ma anche provocazione nella strutturazione di nuove abilità che consentono di realizzare in modo autonomo ciò che si è appreso da un coetaneo. Si tratta del prodotto di uno scambio continuo fra l’ego e l’alter attivato in senso reciproco, la “dialettica della crescita personale” come le definiva J.M. Baldwin. Ecco dunque, in questa prospettiva, l’interazione fra pari assumere un ruolo di prim’ordine nella concezione psicopedagogica di sviluppo. Ed ecco apparire il significato di “conflitto” come motivo di confronto costruttivo fra varie suggestioni individuali.
Richiamandoci ora a quanto esposto al punto precedente, in occasione della dissertazione sul pensiero narrativo, diviene quasi d’obbligo posare un attimo la riflessione sull’eventualità che il pensiero narrativo, proprio perché orientato in senso orizzontale, caratteristicamente idiografico e favorevole alla produzione di proposizioni sensibili al contesto, rappresenti una modalità di funzionamento cognitivo particolarmente adeguata all’elaborazione di conflitti cognitivi di natura sociale. Nello specifico ciò sarebbe importante perché, proprio pensando ai bambini con disagio scolastico, la possibilità di muoversi nel dominio del pensiero narrativo, di per sé sensibile al contesto, potrebbe favorire di gran lunga la comprensione delle relazioni umane che sono la base condizionante delle costruzioni socio-cognitive. In breve, il senso di quanto fin qui esposto si riconduce a una serie di proposizioni essenziali:
a) esistono bambini con svantaggio;
b) questi bambini sono destinati quasi sempre a sopportare il peso di differenze progressivamente più discriminanti;
c) il primo obiettivo è provocare la caduta di queste differenze;
d) si tratta allora di migliorare le prestazioni e le competenze degli alunni svantaggiati;
e) il modo più efficace per ottenere tale miglioramento è far lavorare i bambini in interazione asimmetrica (i più competenti a fronte dei meno dotati);
f) per realizzare un tipo siffatto di lavoro i bambini devono saper cooperare;
g) cooperare con un compagno è una competenza che viene favorita in misura notevole dall’impiego di modalità narrative di pensiero e di discorso, più che di strategie categoriali.
Per scendere molto sul concreto, prima di concludere, riporterò un esempio di come si possano distinguere in pratica l’uso del pensiero logico e l’uso del pensiero narrativo.
A un gruppo di bambini (inizio della Scuola Primaria) si danno alcuni giocattolini, variegati per categoria e funzione, alla rinfusa. Si consegnano poi alcuni fogli bianchi invitando i bambini a raggruppare su ognuno dei fogli i giocattolini e richiedendo loro le ragioni dei raggruppamenti così operati. I bambini logici tenderanno a fare gruppi distinti di persone, animali, cose di ferro, cose di legno, attrezzi da lavoro; oppure faranno raggruppamenti di cose diverse per categoria ma affini per significato funzionale: la barca, il pescatore il pesce perché servono per andare a pesca; il loro è un procedimento nomotetico, categorico, paradigmatico.
I bambini narrativi, per altro verso, nel raggruppare fra loro gli oggetti danno forma a una configurazione dinamica che va sviluppando il tema di una storia; ad esempio, mettere insieme un pescatore, una barca, un cane, un mostro marino o altro, creando un intreccio più o meno fantastico con l’invenzione di una storia all’interno della quale i vari personaggi assumono un ruolo.
Non molto tempo addietro furono portate avanti ricerche sperimentali che hanno permesso di dimostrare la presenza e l’attivazione di maggiori capacità relative allo svolgimento di un compito comune all’interno di coppie di bambini che cooperavano su canali di comunicazione narrativa. Le cose si presentavano in modo del tutto diverso nelle coppie di bambini che davano la preferenza a criteri logici di comunicazione.
Diciamo di più. In tutto questo discorso ritorna di diritto un altro concetto trattato nel presente contesto, quello dei bambini rifiutati. Il fatto che un bambino lasci valutare maggiore o minore popolarità all’interno del gruppo dei pari dipende in gran parte dal suo livello di competenza sociale acquisita, vale a dire dalla sua capacità di decentrarsi verso il punto di vista altrui, di interpretare le intenzioni del partner, di stabilire interazioni positive, di adattarsi a un sistema di regole. Con breve richiamo a quanto affermato più sopra, non c’entrano forse in tutto questo i successi, o gli insuccessi, nei tentativi di integrazione sociale e di strutturazione dell’autostima individuale?
6.7. L’elaborazione del conflitto
Ho usato più volte questo termine ed esso, a tutta prima, sembra trovare collocazione poco familiare all’interno di una comunità scolastica. Eppure il conflitto si presenta come uno dei parametri protagonisti della strutturazione del sapere, dei saperi. Sappiamo da una vasta letteratura in proposito che lo sviluppo si presenta nella forma di un processo discontinuo. Esempio molto banale: il salmone che risale la corrente del fiume. Esso non nuota soltanto in acque calme, ma di tanto in tanto si trova a dover superare un ostacolo, una cascata, un salto d’acqua. Questo tipo di impedimento improvviso gli sbarra a prima vista la strada, ma il salmone mette in atto risorse, pulsioni, strategie nuove e, con notevoli sforzi, riesce a superare l’ostacolo, anche se qualcuno dei tanti finisce fra le fauci di un orso affamato, in fatale attesa. Occupiamoci tuttavia dell’individuo salmone che sia riuscito a scamparla e a proseguire il proprio viaggio: in seguito si verrà a trovare a un livello diverso di ambientazione, dotato di caratteristiche più confacenti alla prosecuzione della vita e quindi al progresso della specie.
Il bambino che avanza sulla via della conoscenza opera le conquiste che questa via gli riserva, non già vivendo in un ambiente asettico e piatto, ma cercando di capire, di dare un senso ai significati all’interno di una marea di stimoli, di problematiche da superare e di esperienze più o meno organizzate. Si trova anche lui, prima o poi, inevitabilmente a fronte di un ostacolo di natura cognitiva. È questo il salto evolutivo, il conflitto che dovrà affrontare, elaborare e superare per raggiungere un superiore e più efficace livello di conoscenza e di funzionamento mentale. Al bambino, tuttavia, non bastano le proprie risorse, le proprie spinte a conoscere, la capacità di formulare ipotesi e impiegare strategie: proprio perché essere sociale, gli necessitano l’assistenza e la guida di un mediatore esperto.
Il conflitto cognitivo, visto in questa prospettiva, non è nulla di pernicioso per l’equilibrio e il benessere della persona, anzi è la chiave che apre le porte ai nuovi orizzonti di conoscenza e di strutturazione mentale. Il conflitto cognitivo, dunque, deve essere favorito, veicolato, affrontato e monitorato con il dovuto equipaggiamento e nei tempi adatti, perché conduca al di là di una balza evolutiva critica, verso nuove opportunità di sviluppo.
Andando ancora allo schema sequenziale proposto al punto precedentemente trattato, volendo accettare il nesso che lega fra loro le dinamiche accennate, constatiamo che le differenze iniziali fra bambini, dovute alla presenza di situazioni di svantaggio e/o di disagio scolastico, possono cadere o essere favorevolmente ridimensionate qualora si instauri un ambiente di cooperazione adeguatamente mirato alla elaborazione del conflitto. Nel caso di alunni difficili, dunque, si dimostra di primaria importanza il creare zone di apprendimento all’interno delle quali emergano situazioni conflittuali di marca evolutiva. Il conflitto, anche e soprattutto per il bambino difficile, è un risvolto esistenziale particolarmente critico, essenziale tuttavia perché sia dato nuovo impulso alla crescita dell’individuo.
La scuola deve tenere conto di questo concetto. Un ambiente educativo di apprendimento non è un prato d’erba sfiorato da una brezza lieve; è piuttosto un percorso, ora quieto ora tormentoso, dove nessuno si adagia nel silenzio della recettività, dove non c’è assorbimento quiescente o passivo delle difficoltà, ma dove tutti, e insieme, si adoperano per dare organicità e significato all’azione comune, per superare ostacoli e andare oltre, in vista di un obiettivo che deve essere molto chiaro nella sua definizione di premessa. “Saper fare insieme” diviene allora un requisito essenziale nell’intesa educativa che vado tentando di costruire.
Dicevo anche della letteratura: ebbene questa ci informa, nel novero delle teorie dello sviluppo, circa l’esistenza di un forte legame tra il modo in cui si evolve la socialità infantile e il modo in cui prendono forma le capacità individuali di tipo operativo e cognitivo; e questo si verificherebbe già in bambini di 2-3 anni di vita (vedi Ada Fonzi e Coll., Università di Firenze, in Età Evolutiva, Giunti, Firenze, n° 36, 1990, pagg. 20-27). Lo scambio sociale, stando a osservazioni e ricerche attuate, a fianco delle motivazioni di ordine socio-affettivo postulerebbe il saper fare dei bambini come possibilità di modulare il proprio comportamento nei confronti dei pari, in un contesto interattivo, sia per il conseguimento di un obiettivo condiviso sia per l’acquisizione di un obiettivo individuale in posizione conflittuale rispetto al punto di vista dei pari.
Quello che mi preme rimarcare, a questo punto, è che la scuola dovrebbe attribuire in ogni caso il dovuto peso, in tutti i processi di crescita e di apprendimento in particolare, ai fattori sociali dello sviluppo cognitivo. Per restare un altro po’ a ciò che la letteratura può offrire in merito, possiamo delineare almeno tre prospettive teoriche sui benefici derivabili dalla interazione fra pari nella scuola dell’infanzia e dell’obbligo (da William Damon, Massachusettes University, in Età Evolutiva, n° 24, 1984, pagg. 46-54):
a) La prima prospettiva si rifà a Jean Piaget dal quale proviene il concetto di conflitto cognitivo come catalizzatore del cambiamento in un gruppo di pari.
b) La seconda si pone in sintonia con la teorizzazione di L.S. Vygotskij e sottolinea il vantaggio derivante ai singoli bambini dalla interiorizzazione dei processi cognitivi attivi nei contesti comunicativi e interazionali fra pari, soprattutto attraverso la verifica delle ipotesi e dei punti di vista, la scelta di strategie e la rappresentazione simbolica degli atti intellettuali.
c) In terzo luogo abbiamo la prospettiva di H.S. Sullivan, di chiaro stampo psichiatrico, relativa all’elaborazione cooperativa di concetti attraverso una coproduzione e un comune consenso sull’uso di strategie intellettuali, verso la co-costruzione concettuale come frutto di scambio fra coetanei.
L’innovazione che risiede in queste prospettive riguarda appunto la costruzione di conoscenze e di competenze individuali. Si supera la situazione didattica classica nella quale il bambino acquisisce qualcosa dall’adulto per trasmissione-rivelazione, per acquiescenza e per assorbimento dei motivi di conflitto. Per contro si incoraggia un progetto di attività che consenta, attraverso la produzione di uno sforzo collaborativo di reciproco riconoscimento, di apprendere l’uno dall’altro per ri-strutturazione, non già per ri-produzione.
Più vicino ai tempi nostri, dagli studi sperimentali svolti dalla scuola post-piagetiana dell’Università di Ginevra (Doise, Mugny e altri) e dell’Università di Bologna (Carugati e altri) è stato confermato che sono proprio le interazioni sociali generatrici di conflitto quelle più adatte ed efficaci nella provocazione del cambiamento cognitivo. Nel momento di coordinare le proprie idee, i propri punti di vista, i propri stili decisionali con quelli dei loro coetanei, in un clima di interazione sociale reciproca, i bambini riescono ad acquisire una serie di operazioni e a ristrutturare le proprie prestazioni cognitive, quanto il solo intervento dell’insegnante, nonostante l’impiego di metodologie collaudate, non sarebbe in grado di realizzare. Conseguenza della ristrutturazione cognitiva, va detto con evidenza, sarebbe un diretto miglioramento nelle capacità di ragionamento. Gli esponenti della Psicologia Sociale Genetica (Doise, Mugny, Carugati e altri) parlano di coordinazione di idee e punti di vista, una coordinazione di natura cognitiva e insieme sociale, promotrice di progresso.
Ma coordinazione tra chi? Tra tutti gli alunni di un gruppo-classe oppure tra alunni di piccoli gruppi? L’ideale sarebbe questa seconda soluzione, sebbene anche la prima offra spunti svariati di interessante lavoro. Gruppi di quattro-cinque bambini possono affrontare problemi inerenti alla normale attività scolastica. L’importante è che il gruppo sia formato da alunni con strategie cognitive diverse per gli uni e per gli altri, che consentano dunque ai singoli di coordinare il proprio modo di affrontare un problema con quello dei coetanei. È solo così che si produce una modificazione del proprio approccio al problema, perché il conflitto di idee viene integrato in un contesto cooperativo fra pari. Si tratta dunque di una modificazione che porta con sé vantaggi sia di ordine motivazionale sia di taglio cognitivo in quanto l’apprendimento cooperativo restituisce efficacia alla comprensione dei concetti fondamentali sottesi al materiale da apprendere e alla interiorizzazione dei criteri logici.
Per tutte queste ragioni sarebbe di gran lunga auspicabile introdurre nella Scuola dell’Infanzia e dell’Obbligo progetti educativi e didattici centrati sulle relazioni fra coetanei. Tutto questo non per creare una nuova moda, non per tentare il tutto e per tutto su uno stile diverso e originale di fare scuola, non per cambiare veste alla didattica nel tentativo fittizio di dimostrare innovazione a ogni costo. Una didattica incentrata sulla collaborazione fra pari deve essere pensata, da quanto ho accennato sopra sfiorando il tema della “caduta delle differenze”, con l’intenzione fondamentale di favorire l’apprendimento di abilità e concetti di base, di aiutare a superare difficoltà altrimenti negativamente condizionanti, di veicolare progresso e successo, e dilatare i confini delle abilità mentali.
Il ruolo dell’insegnante? È ora di spendervi due parole, per non correre il rischio di sorvolare sulla sua presenza. Anticiperò qualcosa soltanto, perché una trattazione più esaustiva e circostanziata sarà curata al successivo capitolo. Bene, l’insegnante riveste il ruolo di mediatore, di regista, di provocatore di situazioni, di organizzatore dello scenario. L’insegnante deve formare i gruppi che possono essere di 4 o 5 alunni, ma anche solo di 2. Deve assistere l’evolversi dei processi dialettici all’interno del gruppo sino alla elaborazione-interazione del nuovo concetto oggetto di studio. In seguito a ciò deve ricomporre i gruppi per garantire a tutti i bambini l’opportunità di lavorare insieme. Come personaggio supervisore, l’insegnante deve curare che sia mantenuta l’attenzione dei componenti il gruppo sul problema preso in esame e verificare insieme ai bambini ciò che rientra nel processo e nel prodotto di apprendimento. Deve, ancora, astenersi dall’interferire con l’imposizione del “dato” di conoscenza, deve mantenere il conflitto socio-cognitivo di comunicazione a un livello medio di attivazione, deve sollecitare gli alunni a fornire giustificazioni verbali circa le loro prese di posizione a fronte del problema da risolvere, deve infine evitare che si creino livelli di supremazia a svantaggio della partecipazione di tutti i membri. Inoltre, è quasi superfluo dirlo, l’insegnante conserva e mette in atto la sua competenza di manipolare la cultura, di trasmettere cultura tramite proposte efficaci di elaborazione e di assimilazione, di effettuare scelte, selezioni, precedenze nei contenuti di apprendimento.
In definitiva, il gruppo di insegnamento che decida per l’impostazione in classe di una didattica basata sulla relazione asimmetrica fra pari nell’elaborazione del conflitto socio-cognitivo, deve muovere da alcuni postulati di partenza per organizzare il lavoro scolastico:
- operare una immediata distribuzione fra bambini logici e bambini narrativi;
- accettare questi ultimi nelle loro peculiarità di pensiero divergente: a una risposta originale e inattesa, a nulla vale ribattere “Ma che c’entra?”; occorre piuttosto assumere le valenze comunicative che si agitano all’interno del mondo delle intenzioni, dei desideri, delle opinioni;
- prevedere la costruzione di un impianto comunicativo fondato in parte anche sul pensiero e sul discorso narrativo ricordando, ripetiamolo, che le proposizioni logiche vengono comprese meglio se inserite in una storia;
- privilegiare all’opportunità l’aspetto intensionale rispetto all’aspetto estensionale della riflessione sull’esperienza, disponendosi anche a effettuare tagli immediati al “programma” da svolgere;
- avere sempre presente che occorre tenere viva nel gruppo di apprendimento quella tensione motivazionale che unica concorre alla ricerca del significato attorno a ciò che si va facendo;
- fare uso di modalità narrative per creare, aumentare e consolidare la cooperazione;
- saper rivestire, come insegnanti, il ruolo di mediatori, senza intrusioni risolutive e senza, del resto, lasciare gli alunni a cavarsela da soli;
- possedere la convinzione che nel momento in cui alunni con punti di vista divergenti discutano fra di loro su un problema da risolvere, si vanno creando le premesse per il raggiungimento di un accordo e pertanto si ha apprendimento.
Per un’analisi più approfondita della problematica si consigliano le seguenti consultazioni di autori citati in Bibliografia (alla fine del Cap. 10 di questa serie): Felice F. Carugati, C. Pontecorvo, Ada Fonzi, A. Iannaccone, C. Piazza.