Perché la naturale curiosità emergente durante l’infanzia non si dissolva, ma sia coltivata e stimolata sino a trasformarsi in bisogno di cultura
Considerazioni di Mario Bruno,
tratte dalla lettura del volume “La Filosofía en el aula” di
Matthew Lipman, A.M. Sharp e F.S. Oscanyan
Madrid, Ediciones de la Torre, 1992
1a di due puntate
Sono, quelle che seguono, considerazioni personali stimolate da un ciclo di letture e studi programmato nell’ormai remoto 2006, ma sempre attuali se confrontate con quanto oggi stesso cade sotto i nostri occhi in ambito educativo.
Studenti che non sanno più ragionare, che non vogliono ragionare, che sono demotivati, rinunciatari senza riserve, che hanno smarrito dal loro vocabolario termini come sforzo, fatica, rinuncia, perseverazione, sacrificio, ma anche come orgoglio, ambizione, amor proprio, desiderio di conquista culturale.
Per fortuna non tutti, sarebbe un disastro! Ma il fenomeno di anno in anno va prendendo spazio, in modo seriamente preoccupante. Gli esiti scolastici nei giovani lo stanno a dimostrare. E, quand’anche gli esiti scolastici lascino intravedere una definizione non proprio scoraggiante su base statistica, ci pensa comunque il livello reale di cultura e di pensiero a fare infine cattiva mostra di sé.
All’interno dell’ambiente scolastico, come pare constatare, si va parlando con sempre maggiore insistenza di un declino dell’impegno osservato da lungo tempo ormai in una fascia sempre crescente di popolazione scolastica. Mi riferisco, più concretamente, al fattore “energia individuale” che ogni singolo studente metterebbe a disposizione nella ricerca di progresso lungo il percorso culturale che la scuola prevede e organizza sulla scorta delle programmazioni educativo-didattiche. Un complesso di atteggiamenti nel quale convergono la volontà, la determinazione, la chiarezza d’intenti, la fiducia nel sistema educativo in genere, la ricerca del significato, l’ambizione personale per la formazione di una mentalità critica e aperta, ma anche il superamento dei traguardi raggiunti per puntare a mete di realizzazione culturale più gratificanti: è la grande assenza che pare vada affermandosi con una progressione costante fra i giovani. Più che mai, oggi, si fa urgente volgere gli sforzi verso la creazione di itinerari interattivi capaci di favorire una presa di coscienza di validi motivi sia culturali sia socio-esistenziali sia etico-morali perché si possa approdare, tutti e ciascun alunno in particolare, a una consapevolezza del proprio essere e del proprio ruolo in una prospettiva di incremento per quanto possibile ottimistica verso la realizzazione e la stabilizzazione di una realtà aperta alla convivenza, alla collaborazione, al rispetto reciproco. Ancora una considerazione che tocca da vicino chi nella scuola lavora a contatto diretto con gli studenti: quella che può essere tradotta nel dualismo ossimorico sempre presente “onnipotenza/impotenza” della Scuola. I nostri Programmi nazionali sono ottimi nell’enunciato, ambiziosi negli obiettivi e nei contenuti. L’istituzione Scuola pare godere di una autorevolezza che consente a tutti gli effetti di svolgere il ruolo educativo-formativo e di alfabetizzazione che le è assegnato. È doveroso, è necessario perseguire i grandi obiettivi, portare a realizzazione e a forme di concretezza fruibile le grandi finalità: formazione dell’uomo e del cittadino, alfabetizzazione culturale, sviluppo armonico e integrale della personalità; punti di arrivo che in alcuni casi, ultimamente in sensibile crescita, restano, almeno per certi aspetti, pure utopie. L’insegnante si guarda attorno, guarda se stesso, scruta dentro se stesso e incontra l’ansia della risposta non trovata: faccio del mio meglio e il riscontro che riesco a ottenere è un comportamento deludente sul piano dell’affermazione culturale. Poi i fatti gli spiegano, a poco a poco, che la responsabilità di questo insieme di defezioni non è neppure interamente ascrivibile agli alunni che gli sono stati affidati. Si chiede ancora perché e che cosa stia succedendo che ella/egli non riesca a comprendere. Poi, ancora, qualche informazione di taglio sociologico le/gli svela una realtà calcificata e amara, epilogo delle dinamiche incorse da un paio di generazioni in qua: il crescente benessere economico, la disponibilità materiale di acquisto, l’invadente tecnologia dei consumi e delle comodità, quando non dell’illusorio e del superfluo, ma anche un pericoloso allentamento di un certo rigore morale passato di moda e rimpiazzato da più comode impostazioni permissiviste, tolleranti o impaniate addirittura nell’assuefazione al degrado, hanno indotto un modo di pensare profondamente mutato e hanno dato vita ad atteggiamenti inattesi nei confronti di una realtà in rapida trasformazione. Da una parte genitori poco oculati e piuttosto distratti che, per non incappare in inusitati sensi di colpa agli occhi della società, danno tutto il possibile ai propri figli, non fanno loro mancare alcunché, spianano loro la strada e abbattono ogni benché minimo ostacolo; genitori che, talvolta, concedono anche il troppo e il non necessario ai propri figli, pur di essere lasciati in pace a godere delle opportunità che la vita è ancora in grado di offrire loro; genitori, ancora, ambiziosi ed esigenti oppure incapaci e sprovveduti, latitanti di fronte alle proprie responsabilità ma sempre pronti nel delegare alle strutture sociali ciò che essi non sanno fare o, peggio, l’oneroso compito di porre tardivamente riparo ai danni spesso pesanti arrecati a un promettente sviluppo personale dei figli già dalle prime fasi dell’esistenza. Dall’altra bambini avvezzi alla logica del “carpe diem”, male equipaggiati nel far fronte ai grandi temi attinenti alla vivibilità sociale, alla cooperazione, alla creazione del proprio futuro; bambini che crescono per lo più disorientati, privi di saldi punti di riferimento, ignari, accecati da un falso ottimismo di facciata e a loro volta irresponsabili, incapaci di produrre quella minima quantità di sforzo e di fatica che la conquista dell’esistenza richiede loro; bambini abituati ad avere sempre ragione, disinvestiti da qualsiasi senso di colpa o di vergogna, liberati premurosamente da ogni inibizione, pronti nell’avanzare pretese e facili alla perdita del rispetto umano fondamentale; figli, infine, sempre più soli e incompresi, avidi di risposte che rincorrono senza potersene impadronire.
Non è una bella considerazione quella appena delineata, e nemmeno molto coerente con quanto le altisonanti declamazioni profuse dalla politica dell’istruzione vanno ribadendo, se vogliamo. Ma non possiamo nasconderci dietro un dito quando vediamo molto chiaramente che il compito della Scuola, in questa panoramica, assume connotazioni sempre più vicarianti e mirate al recupero di qualcosa che, in molti casi, ha smarrito le occasioni per affermarsi in veste di struttura di personalità.
Ma non abbandoniamoci al catastrofismo. “Filosofia in classe”, per chi ne legge il contenuto con attenzione, può costituire un buon motivo per costruire qualcosa di significativo, nella scuola, che sia in grado di porre le premesse per “comprendere” i nostri studenti e per aiutarli nella difficile impresa della loro realizzazione.
Allora mi proverò a raccogliere in elenco e in sintesi, qui di seguito ovvero in occasione della seconda puntata, come preambolo alla traduzione ridotta e adattata dell’opera di Lipman e Coll., una serie di spunti fra quelli che, in corso di lettura, mi si sono presentati come i più interessanti.