La mania di un dittatore, alimentata da un puerile quanto nefasto anelito alla competizione con una grande potenza sul piano militare europeo, finì con il decretare una dichiarazione di guerra tra le più infami, vero insulto alla libertà di un popolo palesemente inoffensivo. Fu una gara, da parte di chi comandava le Forze Armate italiane, a mantenersi al livello combattivo di un alleato-rivale notoriamente forte e dominatore o addirittura a tentare di superarlo e snobbarlo con una vittoria strepitosa degna della più alta ammirazione. Si parlava di invadere la Grecia: “Gli spezzeremo le reni!” aveva gridato il dittatore dall’alto del pulpito, quasi non riuscendo a terminare la frase per il prorompere tonante delle grida di assenso e di entusiasmo provenienti dalla piazza sottostante. Ma non era l’Italia a esultare. Su quella piazza saranno state alcune migliaia di persone, per lo più “educate” a inneggiare alle parole del dittatore. La maggioranza, il popolo che lavorava e soffriva, era assolutamente contraria all’entrata in una nuova guerra e, guardando lontano, prevedeva sacrifici enormi e lutti inevitabili per le famiglie.
I signori della guerra decretarono, il 28 ottobre 1940, che le nostre truppe dovessero scagliarsi contro quelle dell’Armata greca, in terra di Grecia. Come di consuetudine si riponeva, da parte degli alti Comandi, estrema fiducia in una penetrazione lampo e in un indiscutibile soggiogamento della resistenza avversaria: fu forse anche in forza di tale miope valutazione che i nostri soldati furono spinti in terra greca con al seguito una dotazione di viveri e munizioni che sarebbe dovuta bastare per pochi giorni. Ma furono proprio quei primi quattordici giorni di scontri a mettere in tutta evidenza la ferocia della logica di guerra: già la sola divisione Julia aveva lasciato sul terreno 1.700 dei suoi uomini, tanto da essere ritirata dal fronte il 25 gennaio 1941 per essere sostituita dalla Cuneense: degli oltre 10.000 Alpini partiti ne sarebbero rimasti appena 1.500. La Vojussa, il ponte di Perati, annoverati nei tristi canti degli Alpini combattenti, la dicono lunga sulla tragedia che sarebbe andata perpetuandosi gettando nel lutto e nella disperazione migliaia di famiglie.
Immaginiamo in quale stato fisico e morale si trovassero i nostri Alpini costretti, poco dopo aver sparato ai loro fratelli d’oltralpe, a invadere lidi di cui nulla conoscevano, in una nuova guerra di cui non capivano e non avrebbero potuto capire il senso perverso, male equipaggiati e male armati, sotto la neve, al gelo, con i piedi affondati nel fango e spinti avanti contro un cosiddetto nemico di gran lunga superiore in potenzialità difensiva e disposto senza cedimenti a neutralizzare l’invasione della propria terra. Il primo Alpino caduto fu Giovanni Vallar di Chievolis, frazione di Tremonti di Sopra, provincia di Udine, appartenente alla 69a compagnia, battaglione Gemona.
L’aspettativa degli alti Comandi italiani era stata per una debole resistenza da parte delle forze greco-albanesi, ma ai primi di novembre 1940 essa si dimostrò del tutto infondata, dovendo le nostre truppe fare i conti con un’accanita reazione dei Greci e con il fango che si risucchiava inesorabilmente uomini, muli e materiali. Si stava per concludere l’anno 1940 che il Saluzzo, con i battaglioni Borgo San Dalmazzo e Dronero del 2° reggimento Alpini, era partito da Foggia per Tirana e da lì a Fieri, tra l’imperversare di furiose tempeste che impedirono di trasportare anche i muli, i carri e gli automezzi. Mentre gli Alpini cercavano di organizzarsi alla meglio, in attesa che arrivassero, seppure in ritardo le salmerie, cattiva sorte volle che il piroscafo sul quale esse erano trasportate fosse colpito da siluri con la morte dei primi Alpini in quella triste campagna, le novanta vittime della Cuneense. Con tutto ciò al 2° reggimento Alpini era stato affidato l’oneroso compito di ricacciare indietro dalla Valle Shushica i Greci e la cosa non si mostrava così facile per gli Alpini del Saluzzo e del Dronero che, privi di muli, avevano dovuto sostituire i pazienti quadrupedi caricandosi sulla schiena il necessario per i combattimenti, sino al villaggio di Brataj che raggiunsero pochi giorni prima del Natale 1940 in seguito a una marcia in condizioni pessime, sotto una pioggia battente e con i piedi affogati nel fango. I battaglioni Saluzzo e Dronero erano giunti al villaggio di Brataj tra il 20 e il 21 dicembre 1940, con gli uomini stracarichi di munizioni, viveri e armi trovandosi ancora privi di salmerie. Obiettivo dei Greci era forzare il passaggio attraverso la Valle Shushica per raggiungere Valona, ma dovettero fare i conti con la tenace opera di contrasto scatenata dagli Alpini del Saluzzo i quali erano riusciti a respingere la pressione avversaria e a impadronirsi di alcuni punti strategici come il Monte Spitharit (25 gennaio 1941) in posizione dominante sulla Valle Shushica, sempre sotto l’imperversare di piogge torrenziali e di insidiose tormente di neve. I nostri combattenti ne uscirono in condizioni disastrose per gravi insufficienze di vivande, di munizioni, di vestiario. Erano stati costretti a caricarsi in spalla, ancora, ogni sorta di materiali indispensabili e a marciare, incurvati dal peso, per più giorni sotto acquazzoni insistenti, su camminamenti che avevano assunto l’aspetto ormai di corsi d’acqua informi e fangosi, privi persino delle artiglierie, a viso aperto di fronte al fuoco scatenato dalle linee elleniche, dando pur sempre vita ad azioni eroiche di sublime valore militare.
Nella campagna contro la Grecia il 2° reggimento Alpini (col. Ludovico Bauchiero) faceva sempre parte della divisione Cuneense (gen. Alberto Ferrero) ed era formato dai battaglioni Borgo San Dalmazzo (tenente col. Pietro Palazzi), Dronero (magg. Agostino Guaraldi) e Saluzzo (tenente col. Felice Vertone).
Con l’armistizio del 17 aprile 1941, gli Alpini si mossero in direzione di Durazzo per essere imbarcati, a iniziare dal 15 maggio, alla volta di Bari. Di qui, puntata verso Cuneo, era la fine di maggio. A Cuneo il 2° reggimento Alpini venne insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare.
Che cosa poteva significare portare guerra di qua e di là dei nostri confini quando i combattenti in linea non riuscivano a capire quale tipo di valutazioni realizzassero i primi responsabili al momento di abbracciare decisioni che poi si dimostrarono quanto meno assurde, foriere di sofferenze e di sventure? Le previsioni, all’atto della dichiarazione di guerra, erano ottimistiche, o così venivano disegnate agli occhi del volgo, dicevano di interventi facili e rapidamente risolutivi. Sennonché nessuno volle fare quattro conti a tavolino oppure, se qualcuno li fece, li tenne ben gelosamente per sé o per pura pazzia o per il terrore di essere chiamato disertore e messo al muro. Quei conti avrebbero fatto luce su una realtà che vedeva un contingente italiano di appena 80.000 soldati con 400 bocche da fuoco affrontare baldanzoso un dispiegamento di undici divisioni avversarie di fanteria e una di cavalleria, qualcosa che si aggira attorno all’entità di 150 mila uomini e oltre. Ma il nostro Stato Maggiore declamava un esercito invitto e conquistatore, trascurando il fatto che, a partita persa, le cose si sarebbero raffazzonate alla meglio soltanto con l’intervento delle agguerritissime orde germaniche che dovevano prontamente portarsi sul posto per evitare che tutto finisse in uno sfacelo per una parte delle truppe dell’Asse. Una strana e insana avventura quella vissuta nella Grecia del 1940, che costerà alle famiglie italiane la perdita di 14.000 giovani vite sui campi di battaglia, a cui si aggiungono 25.000 dispersi, 50.000 feriti e 12.000 combattenti colpiti da congelamento.
Un sacrificio immane per un conflitto aggressivo-offensivo, contrario a ogni logica di pacifica convivenza e di rispetto per la sovranità altrui, per di più sorretto da motivazioni di esaltato fanatismo e assolutamente fuori ragione. Una pagina della nostra storia effettivamente da cancellare.
Immagine di copertina tratta da Corriere.it