Sto davanti alla TV e mi si presentano le scene di bambini colpiti da morbi e da iponutrizione, quelli per i quali, così per intenderci, Save the Children chiede nove Euro al mese di aiuto. Ma siccome si tratta di uno stacco pubblicitario, subito dopo la scena si porta sui gatti per i quali i loro amici umani hanno predisposto eleganti portate di succulenti bocconcini con tanto di additivi vitaminici che garantiranno loro un ottimo apporto proteico, una salute invidiabile e un pelo quanto mai liscio e lucente.
Deluso e amareggiato cambio canale, vado allora su Televideo ed ecco propinatami la notizia che fa epoca: Donald Trump, candidato nella corsa alla Casa bianca, se necessario – così annuncia – arriverà a spendere anche un miliardo di dollari per sostenere la campagna pubblicitaria, perché i soldi li ha e non ha bisogno di ricorrere a sponsor esterni. Non si perita neppure di sciorinare una promessa: “caccerò tutti i clandestini dalle nostre terre”.
Cambio ancora canale, questa volta RAI-Storia: un documento raccapricciante sulla guerra d’Etiopia. Ma non erano bastate le abissali spese sostenute nella prima Guerra mondiale, che avevano ridotto la maggior parte del popolo italiano alla miseria e alla fame? Bisognava anche andarci a intrufolare negli affari di un popolo d’oltre mare? Bastò un paio di incidenti di frontiera, quelli di Gondar e di Ual Ual, ad accendere la miccia per innescare un apparato esplosivo da lungo tempo coltivato nella pianificazione aggressiva della politica militarista italiana. Pretesti di questo peso, detto fra parentesi, porteranno ad altri successivi conflitti: Francia, Grecia, Albania, Russia, sempre e comunque di tono aggressivo-invasivo.
Chiusa la parentesi, torniamo alle contraddizioni e alle sofferenze subite dai popoli inermi – parlo di bambini, donne, vecchi e malati – e mi riporto a quel documentario sul conflitto nell’Africa Orientale; mi colpisce, da subito, il costo sostenuto dalla nostra Nazione nel periodo dal 1935 al 1937, ossia 40 miliardi di lire, una cifra per quei tempi veramente da capogiro. E penso, visto che quella somma l’avevano a disposizione e la usarono, che l’avrebbero invece potuta impiegare in Patria per imprimere crescita economica, culturale, sociale al nostro vivere; penso, dicevo, a quale infimo livello di ragione si fosse giunti per decidere di utilizzarla allo scopo di uccidere e far penare tante persone coinvolte loro malgrado. L’aggressività dei nostri Comandi mise in mostra tutta la perversione di cui era intrisa colpendo anche chi stava e voleva sicuramente starsene fuori dalle logiche diaboliche della guerra.
In Patria la gente fu chiamata a contribuire alle sorti del conflitto armato donando l’oro che possedeva – ricordiamo la cosiddetta “Giornata della fede” istituita per chiamare a raccolta milioni di Italiani il 18 dicembre 1935 – di fronte ai forzieri che raccoglievano monili e fedi nuziali. Tutto questo, per uccidere di più e più in fretta. Tant’è che, per sbrogliare certe situazioni belliche di stallo e persino minacciose per la nostra avanzata conquistatrice in terra etiopica, il trio Mussolini-Badoglio-Graziani si fece promotore di una spaventosa crociata a base di ordigni sprigionanti gas asfissianti e vescicanti: già dal 20 gennaio 1936 esplodevano colpi contenenti sostanze chimiche devastanti: fosgene, cloropicrina, iprite, arsina, lewisite, sperimentate spietatamente nelle battaglie di Passo Marieu e dell’Amba Uork. Si parlò di 170 quintali disseminati sul terreno, ma poi la stima salì a 85 tonnellate di iprite lasciata cadere a pioggia dagli aerei o diffusa da colpi di artiglieria.
In edizione parallela si esibì con inaudita ferocia il maresciallo Graziani che, per rappresaglia vendicativa, attaccò e distrusse il monastero copto di Debra Libanos, con la susseguente soppressione di duemila innocenti fra monaci, diaconi, novizi e pellegrini che si trovavano presenti. L’Italia lasciava al suolo 4.350 soldati morti, più 9.000 feriti e 18.200 invalidati da malattia. La desolazione che portammo a quelle popolazioni si quantificò nei 760.000 morti o forse 450.000 secondo altre fonti, fra i locali, ma anche nelle 5.000 abitazioni e nelle 2.000 chiese distrutte e, per buona misura, nei 14 milioni di capi di bestiame requisiti o annientati. Il bilancio finale fu pari a un ammontare di quasi 185 milioni di sterline dell’epoca a danno degli Etiopici. Tutto messo insieme per la proclamazione dell’Impero alla data del 5 maggio 1936, impero che, anacronistico in proiezione storica dopo che la Grande Guerra già aveva decretato diciotto anni prima la dissoluzione di quattro solidi imperi, finiva per svanire esso pure con l’irrompente avanzata delle truppe britanniche nel 1941.
Fortemente intristito e depresso da queste notizie volto ancora una volta pagina e mi trovo su Rai3: la guerra nel Vietnam. Per nostra buona sorte non siamo più noi gli aggressori, forse ne abbiamo avute abbastanza dalle precedenti esperienze: la nostra Nazione ne era uscita peggio che mai dissanguata nelle risorse e nel senso di appartenenza a un ideale di grandezza. Il Vietnam fu letteralmente martirizzato dal 1961 al 1968. L’anno 1964 assistette ai primi letali bombardamenti, qualcosa rapportabile a 14 milioni di tonnellate di bombe quasi interamente utilizzate per l’eccidio della popolazione civile, come dire 250 chilogrammi di esplosivo per ogni abitante dell’Indonesia. E per dare corpo a cotanta carneficina furono sacrificate le vite di 60.000 Americani e lasciati nell’impotenza altri 100.000 mutilati. Milioni, molti milioni i morti e i disastrati fra la popolazione locale. Il potere dirompente dei bombardamenti accennati fu rapportato a quello sviluppato, per confronto, da 388 bombe nucleari come quella caduta su Hiroshima. Non bastò; si ricorse, ancora, alle armi chimiche, nella quantità di 65 milioni di litri riversati sul territorio.
“Ecce Homo”! Questa l’espressione con la quale potrei suggellare le poche constatazioni sopra esposte, una minima rappresentanza delle potenzialità distruttive e malefiche della nostra razza. E, un po’ per consolarci, un po’ per non soccombere del tutto a un gravoso senso di desolazione e disperazione, potremmo esclamare a una voce, sull’eco di chi intese portarci la buona novella: “Eloi, Eloi, lamma sabactani?” – Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Eterne contraddizioni
Viviamo in un estremo stato di precarietà. Minacce di ogni fatta incombono sul nostro capo. Oggi ci siamo e domani: tac! un colpetto da nulla e non ci siamo più. Ma, allora, che cosa ci siamo venuti a fare su questo meraviglioso e terribile Pianeta? Stiamo correndo a distruggere, a distruggerci, guardando a chissà quale futuro, convinti che per noi ci saranno sempre un domani e sempre nuove promesse. Da quando ancora giocavamo a nascondino a oggi che siamo alquanto attempati, è trascorso soltanto un attimo, un breve incoglibile attimo. Ma qual è il senso del nostro esserci qui? Per ora, soltanto la consapevolezza, da parte mia, di percorrere una strada irta di contraddizioni. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” si dice pregando. Ma, mi vien da dire, perché quella Provvidenza divina che pensa agli uccelli dell’aria e ai fiori dei prati è così distratta da non avvedersi di tanta, troppa gente che muore di fame? Poi leggo sui mezzi di informazione:
Nel mondo del benessere si continua a fare spreco e scempio di alimenti. Soltanto in Italia, all’inizio del 2012, si calcolava che, a causa proprio degli sprechi di prodotti della cucina, veniva perso cibo per oltre dieci milioni di tonnellate che equivalevano a un capitale di trentasette miliardi di Euro andati in fumo. E tutto questo nel solo breve arco temporale di dodici mesi! Trascorsi altri due anni, poi, si veniva a sapere, era la fine del 2013, che a fronte del problema inerente al cibo sprecato si era deciso di indire una giornata di sensibilizzazione, precisamente per il 5 febbraio del 2014, contemporaneamente al varo di un Piano nazionale contro lo spreco alimentare che, nella sola Italia, incideva per lo 0,5% sull’andamento del Paese. Erano dati rilevati dall’Osservatorio Waste Watchers, secondo i quali ogni famiglia italiana buttava nella spazzatura in media duecento grammi di cibo per ogni settimana. Calcolando il recupero di tale spreco si sarebbe potuto realizzare un risparmio di 8,7 miliardi di Euro, ma anche sfamare molte bocche alla ricerca della sopravvivenza alimentare. Già si calcolava che ogni anno giacevano marcescenti nei campi 1,2 milioni di tonnellate di prodotti ortofrutticoli, nello stesso tempo in cui due milioni di tonnellate si “perdevano” nell’industria agroalimentare e altre 300 mila tonnellate se n’andavano dopo essere pervenute alla distribuzione. Ad agosto del 2016, poi, si andò diffondendo la notizia che in Italia gli sprechi alimentari costano 12,5 miliardi di Euro, equivalenti a risorse perse per il 54% al consumo, per il 15% nella ristorazione, per l’8% in agricoltura e per il 2% nella trasformazione. In media, nel corso di un anno, ogni italiano getta nella spazzatura 78 kg di alimenti. Provo tanta vergogna, anch’io sono colpevole.
Così per noi, ospiti del pianeta dell’opulenza. Non per altri milioni di persone che, condannati dall’ennesima forma di contraddizione planetaria, scappano, fuggono perché là dove sono nati non è più possibile vivere. Il giorno sabato 19 giugno 2021 le fonti di informazione quotidiana rivelano: “Guerre e persecuzioni hanno costretto tre milioni di persone a fuggire dalle loro case nel solo anno 2020. E il fenomeno si è verificato nonostante l’imperversare della pandemia che ha provocato la chiusura delle frontiere e ha imposto il lockdown, come riferisce il rapporto “Global Trends” dell’Unhcr. Il totale dei profughi è salito a 82,4 milioni, pari all’intera popolazione della Germania ed è il doppio rispetto a quello di dieci anni fa. Si tratta del nono anno consecutivo in cui il numero di persone in fuga continua a crescere. L’un per cento dell’umanità vive ormai in condizioni di profugo”.
Un flebile raggio di sole su tutto questo insieme di brutture mi arriva la sera del 29 luglio 2021 allorché decido di assistere, sul canale televisivo Rai5, a uno spettacolo musicale di raro valore artistico: va sotto il titolo di Le vie dell’amicizia per la Siria. La presentazione è affidata dal grande maestro Riccardo Muti che, con parole velate da commozione, rammenta la serie quasi infinita di sofferenze, soprusi, ingiustizie sovrastanti l’umanità meno fortunata. Soprattutto la fame, la violenza, la sopraffazione, e le guerre, madri oscure di tutti i mali. Muti affida la propria speranza alle voci della musica, sul fluire delle quali gli uomini sono chiamati a fermarsi, a pensare, a riflettere, a cambiare abito di vita; poi, con la sua gestualità sapiente e virtuosa, dà inizio all’espressione di un linguaggio musicale accattivante.